“Perché tante persone si sentono sole? Perché è in loro stesse, è nella loro testa e nel loro cuore che hanno creato quella solitudine. In realtà non si è mai soli. Lamentarsi di essere soli significa dichiarare che si manca di amore; ma si manca di amore perché non si ama. Quanti uomini e donne si accontentano di sognare l’amore! Attendono il principe o la principessa delle Mille e Una Notte, ed è per questo che si sentono soli: perché aspettano l’amore, e non lo cercano in loro stessi. L’amore che aspettate non verrà mai. L’amore, non lo dovete mai aspettare: è dentro di voi. Lasciatelo uscire, lasciate che si manifesti e che s’irradi: è il solo modo per incontrarlo veramente.”
Opinioni primordiali del maestro Gurdjieff sull’occultismo.
Gurdjieff ha sempre avuto un atteggiamento molto astuto riguardo all’occultismo. La sua dottrina è una cosa completamente diversa da quella esplicitamente satanista di Aleister Crowley, e lui stesso criticava le varie forme di occultismo moderno, lo spiritismo, la Teosofia, ecc… (come del resto faceva anche il massone René Guenon). Allo stesso modo, però, faceva intendere di aver conosciuto benissimo molte pratiche magiche (e sicuramente ne aveva fatto uso). Anche lo scrittore Aldous Huxley (1894-1963) definiva gli scritti di Gurdjieff «l’opera classica di un mago» 1. Lo stesso Ouspensky inoltre racconta di come il «maestro», durante il periodo di soggiorno ad Essentuki, insegnasse ai suoi discepoli a riconoscere le manifestazioni soprannaturali dai trucchi:
«Quando fummo tutti riuniti, nel marzo 1918, vennero stabilite nella nostra casa regole molto rigide; era proibito allontanarsi, si stabilirono turni di guardia giorno e notte, e così via. E cominciarono i lavori più vari. Nell’organizzazione della casa e delle nostre vite furono introdotti principi molto interessanti.
Gli esercizi, questa volta, erano molto più difficili e vari di quelli dell’estate precedente: esercizi ritmici accompagnati da musica, danze di dervisci, esercizi mentali, studio dei diversi modi di respirare, e così di seguito. Particolarmente impegnativi erano gli esercizi di imitazione dei fenomeni psichici: lettura del pensiero, chiaroveggenza, manifestazioni medianiche, ecc… Prima di cominciare tali esercizi, G. ci aveva spiegato che lo studio di questi “trucchi”, come li chiamava, era obbligatorio in tutte le scuole orientali, perché senza aver prima studiato tutte le imitazioni e contraffazioni possibili, non era pensabile cominciare lo studio dei fenomeni di carattere sopranormale. Un uomo non può distinguere il reale dal falso in questo campo, se non quando conosca tutti i trucchi e sia in grado di riprodurli egli stesso. G. diceva inoltre che uno studio pratico dei “trucchi psichici” era di per sé un esercizio insostituibile, e che era quanto di meglio si potesse desiderare per lo sviluppo della perspicacia, dell’acutezza dell’osservazione, dell’avvedutezza e di altre qualità ancora, che il linguaggio della psicologia ordinaria ignora, ma che certamente devono essere sviluppate. Ciononostante, il nostro sforzo era soprattutto basato sulla ritmica, e su strane danze destinate a prepararci a fare in seguito degli esercizi di dervisci» 2.
Ma Ouspensky è ancora più esplicito in questo passo, quando riporta l’opinione di Gurdjieff sulla magia nera:
«Mi è stato spesso chiesto che cosa sia la “magia nera”, e ho risposto che non vi è nessuna magia rossa, né verde, né gialla. Vi è meccanicità, cioè “ciò che capita”, e vi è il “fare”. “Fare” è magico, e non vi è che un modo di “fare”. Non possono esservene due. Ma può esservi una falsificazione, una imitazione delle apparenze esteriori del “fare”, che non può dare alcun risultato oggettivo, ma che può ingannare le persone ingenue e suscitare in esse la fede, l’infatuazione, l’entusiasmo e persino il fanatismo.
Questo è il motivo per cui, nel vero lavoro, cioè nel vero “fare”, non è più possibile alcuna infatuazione. Ciò che definite magia nera è fondato sull’infatuazione e sulla possibilità di giocaremano – magia nera sulle debolezze umane. La magia nera non significa, in nessun modo, una magia del male. Vi ho già detto che nessuno fa mai del male per amore del male o nell’interesse del male. Ognuno fa sempre tutto nell’interesse del bene così come egli lo comprende. Nello stesso modo, è del tutto erroneo affermare che la magia nera è necessariamente egoista, che nella magia nera l’uomo mira obbligatoriamente ad ottenere dei risultati per sé stesso. Niente è più falso. La magia nera può essere molto altruista, può perseguire il bene dell’umanità, può proporsi di salvare l’umanità da mali reali o immaginari. Ma ciò che può essere chiamato magia nera ha sempre un carattere definito. Questo carattere è la tendenza a servirsi delle persone per qualche scopo, anche il migliore, senza che essi lo sappiano o senza che comprendano, sia suscitando in essi la fede e l’infatuazione, sia agendo su di essi con la paura.
Ma a questo riguardo occorre tener presente che un “mago nero”, buono o cattivo che sia, ha dovuto passare attraverso una scuola. Egli ha imparato qualche cosa, ha inteso parlare di qualche cosa, sa qualche cosa; egli è semplicemente un “uomo educato a metà” che è stato allontanato da una scuola, oppure che l’ha lasciata avendo deciso che ne sapeva ormai abbastanza, che si rifiutava di restare più a lungo sotto la tutela di qualcuno, e che poteva lavorare indipendentemente e anche dirigere il lavoro degli altri. Ogni lavoro di questo genere può produrre solamente risultati soggettivi, cioè non può che deludere sempre di più e aumentare il sonno invece di diminuirlo. Si possono nondimeno apprendere certe cose da un mago nero, sebbene in modo sbagliato. Può persino capitargli, per caso, di dire la verità. È per questo motivo che io vi dico che vi è ben peggio della “magia nera”. Per esempio, tutte le specie di società “spiritistiche”, “teosofiche” e altri gruppi “occultistici”. Non soltanto i loro maestri non sono mai stati in una scuola, ma non hanno nemmeno mai incontrato qualcuno che sia stato in contatto con una scuola. Il loro lavoro non è che scimmiottatura. Ma un lavoro imitativo di questo genere procura una grande soddisfazione. Qualcuno si prende per un “maestro”, gli altri si prendono per “discepoli” e tutti sono contenti. Nessuna realizzazione della propria nullità può essere ottenuta in questo modo; e se qualcuno afferma di aver raggiunto questo risultato, non fa che illudere e ingannare sé stesso, quando non si tratti di pura menzogna. Al contrario, anziché realizzare la propria nullità i membri di queste società realizzano la loro propria importanza e accrescono la loro falsa personalità» 3.
In un libro pubblicato in Inghilterra da Rom Landau, in cui l’autore intervistava alcuni uomini considerati maestri spirituali (come Rudolf Steiner, Krishnamurti, ecc…) vi era riportato un curioso episodio riguardante proprio Gurdjieff e che conferma non solo la conoscenza, ma anche l’uso effettivo delle pratiche occulte:
«Prima del colloquio, avevo pranzato con un notissimo letterato americano che, a quanto m’avevano detto, conosceva Gurdjieff da parecchi anni. Gli chiesi che cosa ne pensava.
“In realtà non gli ho mai parlato – mi rispose – ma ho assistito spesso alle sue conferenze, e devo ammettere che per me quell’uomo è un enigma”.
“È vero, secondo lei, che qualche volta si serve dei suoi strani poteri per fini tutt’altro che spirituali”?
“Sarebbe ingiusto affermarlo. Tutti i fatti poco ortodossi di cui si parla potrebbero integrarsi in un sistema spirituale di portata profondissima. Non dimentichi che anche Madame Blavatsky cercava spesso di ottenere dai suoi allievi certe reazioni autentiche insultandoli o scandalizzandoli. Forse Gurdjieff agisce nello stesso modo. Una volta, Orage e altri adepti di Gurdjieff cercarono di farmi partecipare al movimento. Ho sempre rifiutato, e devo dire d’essere contento di non avere avuto nulla a che fare con loro”.
“È vero che Gurdjieff è cambiato radicalmente dopo quell’incidente automobilistico”?
“Sembra che sia veramente cambiato. È rimasto per molto tempo tra la vita e la morte, e può darsi che un’esperienza tanto dolorosa l’abbia trasformato. Come forse lei sa già, è uscito il suo primo libro, e mi ha abbastanza sorpreso, perché mostra un Gurdjieff nuovo, più altruista, meno materiale”.
“Dove potrei procurarmi quel libro”?
“In nessun posto, purtroppo. È un’edizione privata, e Gurdjieff la manda soltanto a quei pochi che giudica degni d’essere istruiti da lui. Me ne ha mandato una copia, ma lo stile è tanto orribile che ho. faticato parecchio ad arrivare fino in fondo”.
“Lei l’ha visto, In questi ultimi tempi”?
“Si, a un ricevimento, la primavera scorsa. Le racconterò un fatto molto curioso accaduto quel giorno. Una mia amica, una famosa romanziera, era seduta alla mia tavola. Le indicai Gurdjieff, che era seduto ad una tavola vicina, e le chiesi se lo conosceva. “No, chi è”?, rispose lei, guardandolo. Gurdjieff colse il suo sguardo e subito lo vedemmo aspirare ed espirare in un modo particolare. Sono troppo abituato a questo genere di trucchi per non capire subito che Gurdjieff stava servendosi di un metodo orientale. Qualche attimo dopo mi accorsi che la mia amica impallidiva e sembrava sul punto di svenire. È una donna che di solito sa controllarsi perfettamente, e il suo atteggiamento mi sorprese. Dopo un istante, si riprese, e le chiesi che cosa le fosse successo. “Quell’uomo è fantastico”, mormorò. “È successa una cosa spaventosa”, riprese. Poi, all’improvviso, si mise a ridere, della sua risata cordiale. “Dovrei vergognarmi, ma non importa, le dirò che cos’è successo. Ho guardato il suo “amico”, e lui ha sorpreso il mio sguardo. Allora mi ha fissata a sua volta, in modo tale che, dopo un istante, mi sono sentita toccata al centro del mio sesso. È ignobile!”» 4.
Ma al riguardo ci sono racconti ben più inquietanti di questo, che tutto sommato fa sorridere. Vogliamo riprendere ancora una volta la testimonianza di Frances Rudolph, che oltre ad aver subito notevoli pressioni psicologiche, ad un certo punto comincia ad accusare anche molti problemi fisici. Il racconto è un esempio allarmante di quelli che erano i metodi usati nei gruppi di Gurdjieff. Ad un certo punto Frances inizia a star male e a sentire brividi, seguiti da febbri.
«Mentre facevo progressi notevoli nella sensazione di me stessa, le mie condizioni di salute peggioravano. Non associai mai, consciamente, questo progresso parallelo; ma sapevo, senza capire perché, che sarebbe stato inutile per me andare da un medico. Sapevo che nessun medico avrebbe potuto aiutarmi» 5.
Solo grazie all’insistenza dell’amica Pat (assieme alla quale era entrata nel gruppo gurdjieffiano), Frances si fa visitare da un medico del gruppo, che le prescrive un riposo assoluto di sei settimane nonché una cura comprendente molti sedativi, medicinali e iniezioni per il cuore. Ma questa non si rivelerà una grande idea… (N.B.: Blank, Fish e Vide sono nomi di fantasia)
«Quando uscii dallo studio del dottor Fish, non sapevo se dovevo seguire o no i suoi consigli. Come una falena attirata da una lampada, andai subito a incontrarmi con una persona per cui provavo una crescente attrazione. Durante quel breve appuntamento mi fu fatta una dichiarazione d’amore che io accettai senza esitare neppure per un attimo. Non ero innamorata, ma avevo un grande bisogno d’amore. Desideravo essere furba e prendere ciò che mi occorreva. Chi annega non rifiuta l’aiuto che gli viene offerto. Potei restare con M. solo per pochi minuti, poi saltai su di un tassì per andare dalla signora Blank.
All’improvviso decisi di essere veramente esaurita e di avere veramente bisogno di riposo. Sì, avrei lasciato temporaneamente il lavoro e sarei rimasta a letto per sei settimane. M. sarebbe venuto a trovarmi e mi avrebbe portato dei fiori. Benché non fossi innamorata, speravo di potermi salvare, grazie all’amore, dai maghi che volevano la mia pelle e le mie ossa. Non mi rendevo conto che il potere dei maghi era così grande che tutti i miei sforzi penosi e ostinati di amare sarebbero stati vani. Per nove mesi avevo tentato, senza riuscirci, di stabilire l’identità. Interiormente, ero morta come una pietra. Esteriormente, dovevo dare la stessa impressione, perché coloro che non mi avevano conosciuta prima mi guardavano e poi dicevano a Pat, con molto tatto, che io stavo per morire.
Quando mi fui messa a letto, come mi aveva prescritto il dottor Fish, mi accorsi che era molto difficile alzarmi di nuovo. L’enorme quantità di sedativi mi manteneva sempre in uno stato crepuscolare, e la borsa d’acqua calda sul fegato contribuiva e indebolirmi. Dopo un numero incalcolabile d’iniezioni e di pillole per il cuore, per la prima volta incominciai a rendermi conto della presenza di quell’organo dentro il mio corpo. Incominciò a ballare un boogie-woogie impazzito, saltando e battendo selvaggiamente, per poi calmarsi e ricominciare daccapo quando meno me lo aspettavo. Pensai: “Fish è proprio un medico meraviglioso: ha scoperto che avevo qualcosa al cuore, e io non lo avevo mai sospettato”!.
Piombai in una specie di letargo e rimasi a letto per sette od otto settimane. Alzarmi mi era praticamente impossibile. Restavo a letto e sentivo la morte che saliva dentro di me. Nella nebbia dei sedativi, mi sentivo spaventosamente allarmata. Non volevo morire per una ragione inspiegabile e “non naturale”. Non potevo comprendere che cosa mi era successo. Mentre seguivo la cura prescritta dal dottor Fish, M. mi veniva a trovare. Benché mi fosse quasi insopportabile non potere sentire quasi nulla per lui, sono convinta che gli sforzi che feci per provare qualcosa mi salvarono la vita. Quando capii che, se fossi rimasta ancora a letto, non sarei mai guarita, mi alzai. Questo avvenne all’inizio di dicembre. Tutto il coraggio che possedevo lo concentrai su di un unico scopo: cercare d’aprire una breccia nel muro del richiamo di sé e della non-identificazione che mi impediva di amare. Lottare per amare… chi ha mai sentito parlare d’una cosa simile? Dovrebbe essere naturale come respirare e come mangiare. Non esistono parole che possano descrivere l’orrore della mia situazione. Dissi a Pat d’informare la signorina Vide che rinunciavo al lavoro, non perché mi rendessi conto che mi aveva portata tanto vicino alla morte, ma semplicemente perché non potevo fare altro che combattere per restare in vita. Istintivamente, sapevo che sarei stata spacciata, se non avessi potuto amare. Tutta la mia energia si impegnò in quella lotta. Invano: ero sconfitta; ero schiacciata sotto il pollice del demonio. Il lavoro mi aveva vinta. Pat cercò abilmente d’indurmi a ritornare al lavoro. Resistetti fino alla metà di gennaio, ma poi seppi che ero soltanto una macchina, una macchina che non poteva amare. Dove potevo andare se non al lavoro, per trovare un po’ di aiuto? […].
Ci incontravamo nella stanza d’albergo della signorina Vide, che dava sulla Senna. Per quanto mi impegnassi molto nel lavoro, non riuscivo ad accontentarla, benché ogni volta mi sembrava di essere molto vicina al successo. Quella promessa di qualcosa d’imminente mi spingeva a continuare. Ormai, non potevo più tornare indietro. Dovevo andare fino in fondo. Dovevo seguire la mia strada, fino a quando fossi arrivata al bivio finale.
La vita era una monotonia lunga e dolorosa. Non potevo scrivere. La signorina Vide aveva detto che era inutile scrivere, se non si è pagati per farlo. Chi sarebbe stato disposto a pagare le mie poesie? Smisi di comporle. La poesia era la sola cosa che potevo ancora amare nella vita, ma non potevo più scrivere. Il lavoro mi aveva mostrato quanto fosse ignominioso essere uno strumento creativo. Bisognava essere Dio, o niente. Io ero niente, niente, niente.
Quando i “profani” mi chiedevano che cosa facevo a Parigi, non potevo mai dirlo. Considerato quanto fosse pazzesco il costo della vita a Parigi per uno straniero, soprattutto per un americano, i lavoretti che facevo per guadagnare qualche franco erano ridicoli. E non potevo parlare delle mie “attività nei gruppi”. Non si dice: io faccio il lavoro. Non potevo leggere… a parte la letteratura del gruppo, non c’era nulla che valesse la pena di essere letto. Non potevo scrivere: non ero pagata per farlo. Non potevo amare… una macchina non può amare. Che cosa facevo? Sembrava che non facessi niente, e invece la lotta che conducevo giorno e notte stava quasi per uccidermi. Ma cos’era quella lotta? Non lo sapevo. Non potevo dirlo» 6.
Frances comincia a rendersi conto di essere in qualche modo ipnotizzata e di essere pericolosamente vicina alla morte:
«Quando compresi per la prima volta la vera natura del lavoro l’improvvisa rivelazione spinse la morte a lottare. Con orrore feci l’esperienza dei sintomi fisici della morte. La notte mentre ero a letto e tentavo di addormentarmi, le mie gambe e le mie braccia scattavano, lanciate bruscamente in aria. In tutto il corpo, il mio sangue balzava e saltava come un fagiolo messicano. Tutto in me, sembrava aspirato dall’alto. Continuavo a vedere l’immagine d’un uccellino morto, a zampe all’aria. E sempre, dentro di me, risuonava la “preghiera” di Belzebù per la nonna morta:
“Possa riposare con i santi adesso che ha tirato le cuoia”.
Per una decina di giorni, il mio corpo sembrò sul punto di morire. Ero convinta che “loro” sapessero che avevo scoperto la verità sul loro conto e che, per mezzo della magia nera, volessero punirmi. Durante il giorno, riuscivo a conservarmi relativamente tranquilla. Ma la notte era il loro regno, e allora giacevo madida d’un sudore angoscioso, torturata, quando mi addormentavo, dagli incubi dell’orrore senza fine del lavoro. Avevo tanta paura che potessero vendicarsi che decisi d’inventare una magia bianca, da contrapporre alla loro magia nera. Non voglio dire quale magia bianca abbia usato. Dirò soltanto che, per quanto ciò possa apparire puerile, i miei esercizi mi aiutarono a superare quel periodo iniziale di terrore. Non era necessario che esortassi Pat ad adottare quella magia bianca difensiva: se mai c’è stata una ragazza protestante fino al midollo delle ossa, quella è Pat. Comunque, non vide nulla di superstizioso nelle nostre armi improvvisate per difenderci dai maghi. A lei come a me, sembravano e sembrano tuttora assolutamente ragionevoli.
A parte le “formule magiche”, il solo modo per proteggermi che conoscessi consisteva nel comprendere sempre più chiaramente. Quando si conosce il diavolo e tutte le sue astuzie, il demonio è ridotto all’impotenza. Mentre ero a letto, combattevo il mio terrore pensando. Riesaminavo nella mia mente tutto ciò che era accaduto, inserendo i singoli avvenimenti in un quadro complessivo sempre più coerente. Gli scritti di Gurdjieff e molti passi dell’opera di Ouspensky mi apparivano improvvisamente chiari.
A proposito del problema che l’ossessionava, lo “scopo della vita umana”, Gurdjieff dice: “Ho la convinzione chiara e assoluta che le risposte che cercavo, e che nella loro totalità potevano gettare luce su quei problemi fondamentali dell’io, si possono trovare soltanto se sono del tutto accessibili all’uomo, nella sfera dello spirito inconscio dell’uomo. Quindi, ebbi la convinzione che, a questo scopo, era indispensabile per me perfezionare la mia conoscenza di tutti i particolari della formazione e del meccanismo della manifestazione dell’anima generale dell’uomo […].
Dopo aver liquidato tutti i miei affari, cominciai a raccogliere tutte le opere scritte e tutte le informazioni orali che ancora sopravvivevano in certe zone dell’Asia su questo particolare ramo della scienza, che era stata molto sviluppata nei tempi antichi e che si chiamava Mehkeness cioè “l’azione di togliere la responsabilità”, della quale la civiltà occidentale conosceva solo una parte insignificante sotto il nome di “ipnotismo”, fino a quando tutta la letteratura esistente sull’argomento mi diventò perfettamente familiare […]”.
Con mio grande spavento, compresi il vero compito degli “insegnanti” dei movimenti, e l’esercizio della sensazione. Compresi perché il mio corpo incominciava a morire. Non compresi esattamente in che modo mi era stato fatto tutto questo, ma sapevo che me l’avevano fatto. Pensai agli immensi greggi di agnelli ipnotizzati dai maghi e ancora controllati a Parigi, Lione, Londra, nell’America meridionale e nelle principali città americane. Il mio cuore provava pietà per i membri del gruppo di Parigi, che nel caso d’una guerra sarebbero stati abbandonati a sé stessi, mentre i loro “capi” se ne sarebbero andati negli Stati Uniti o nel Sud America» 7.
Frances Rudolph a questo punto racconta la sua vicenda a Louis Pauwels, del quale aveva letto un articolo su Gurdjieff tempo prima. Anch’egli aveva avuto una esperienza terribile. Decidono di raccogliere le testimonianze. Poi, un po’ alla volta, con il suo aiuto e quello di altre persone, Frances riuscirà a venir fuori da questo incubo.
Un altro episodio perlomeno dubbio narrato da Pauwels è quello di una ragazza russa di nome Irène-Carole Reweliotty, morta a venticinque anni in un modo che desta molti sospetti. Anche Irène era malata di tubercolosi, si era curata nell’Alta Savoia, sul pianoro d’Assy, dove aveva conosciuto gli scrittori Luc Dietrich e René Daumal, che la condussero verso Gurdjieff.
«Quando ritornò a Parigi, lei si slanciò nei “gruppi” con la frenesia che metteva in tutte le cose. Tuttavia cominciò a trovarsi a disagio. Conobbe la rivolta e la disperazione […]. Qualche giorno prima di morire, Luc Dietrich le scrisse per consigliarle di allontanarsi un po’ dal “lavoro”. La sentiva intimamente straziata, turbata, e all’improvviso s’era spaventato. Lei continuò a frequentare i gruppi per fedeltà alla sua memoria. Mori anche René Daumal. Lei esitò, pensò di rompere con il “lavoro”. E allora, nel momento in cui incominciava a dubitare della sincerità di alcuni membri della società Gurdjieff cui s’era legata, della possibilità di raggiungere quello stato sovrumano che le avevano promesso, una discepola decise di presentarla a Gurdjleff. Non lo aveva mai incontrato. Dubitava di certuni, ma non dell’uomo di cui Dietrich e Daumal parlavano con estrema venerazione. Era veramente Colui che apre la porta, il Maestro. Fu invitata a cena in Rue du Colonel-Renard. Ecco, la grande avventura stava veramente per incominciare. Era senza dubbio il primo giorno di “un’altra vita”.
La cena si svolse come al solito. Durante quella cena, all’improvviso, parlandole in russo, che nessun altro dei convitati capiva, il vecchio le chiese di fingere d’andarsene con gli altri, alla fine del pasto, e di ritornare subito. Irène non sapeva come interpretare quella richiesta. Aveva paura. Se ne andò con gli altri. Telefonò a Gurdjieff da un caffè di Avenue Wagram. Gli disse che sua madre l’aspettava e che non poteva tornare da lui. Allora Gurdjieff l’insultò con parole che non nascondevano nulla delle sue intenzioni. Era Rasputin furioso. Lei provò una scossa tremenda, un grande orrore, una disperazione totale. Il giorno dopo, andò a trovare la discepola che l’aveva presentata a Gurdjieff e le dichiarò che rompeva con l’Insegnamento. Quella le rispose che ciò poteva causarle molti guai, la schiaffeggiò, la mise alla porta. Sconvolta, distrutta, Irène parti per il pianoro di Assy, per tentare di ritrovare la calma. Qualche giorno dopo il suo arrivo, ebbe una crisi cardiaca che niente faceva prevedere.
La sua ultima lettera alla madre, datata 2 agosto, comincia cosi: “Cara mamma, finirò per credere che G. mi abbia fatto un sortilegio”. Mori il giorno 11, senza che i medici capissero il perché. Suo fratello, un noto musicista di jazz, mentre la vegliava nella camera mortuaria, credette di vedere apparire Gurdjieff, che non aveva mai visto, ma che riconobbe. Uno dei suoi amici andò a trovare uno scrittore celebre, perfettamente in grado di parlare di Gurdjieff. Volle interrogarlo sulla morte d’Irène. “Se tiene a sé stesso, non si immischi in questa faccenda”, gli rispose lo scrittore. Irène-Carole Reweliotty era entrata alla rivista Carrefour subito dopo la Liberazione. Félix Garras, direttore di quel settimanale, e il suo amico Henry Muller hanno pubblicato il diario intimo della ragazza, nelle edizioni La Jeune Parque» 8.
Per concludere la nostra trattazione su Gurdjieff, abbiamo scelto di riportare proprio un estratto di questo diario, molto breve ma particolarmente toccante. In esso emergono la lotta interiore e i dubbi avuti da Irène pochi giorni prima della morte, quando ormai la ragazza sembrava aver deciso definitivamente da che parte stare: 27 luglio 1945
«Sono una contadina. Appartengo alla terra. Dalla terra vengo alla terra ritornerò. O Dio, in questo dialogo con il vento tu m’hai risposto. No, la mia esaltazione non era artificiale. Ti ho pregato, parlato. Ritornerò a battermi perché tu lo vuoi. Ma è a te che appartengo soprattutto, perché tu solo mi salvi e conosci il mio vero posto, tu solo saprai mettermi là quando verrà il momento. Quegli individui, che orgogliosi (il gruppo Gurdjieff; N.d.R.)! Non bisogna dire “Io sono”, ma “Egli è”. Non riconosco a nessun uomo il diritto d’impicciarsi della mia vita spirituale. La mia salvezza è una faccenda che verrà regolata tra Dio e me. È tutto. E ho capito che amavo Dio. Io dormo al centro del mondo» 9.
Abbiamo visto che nel mondo della cultura più di qualcuno si è lasciato sedurre da Gurdjieff, le cui idee hanno esercitato un’influenza molto più profonda di quanto non appaia a prima vista. Ma l’Insegnamento propugnato da Gurdjieff conduce ad una vera elevazione spirituale o non è forse un percorso mirante a realizzare l’auto-divinizzazione di sé? Si può forse supporre di avvicinarsi a Dio in questo modo? Noi riteniamo di no; del resto, per ammissione dello stesso Gurdjieff, la Quarta Via è una via «contro la natura e contro Dio».
L’Insegnamento prevede una serie di tecniche assai pesanti (movimenti, osservazione di sé, danze, ecc…) finalizzate ad ottenere uno stato superiore di coscienza. Nel misticismo cristiano invece è Dio che si rivela di Sua iniziativa all’uomo e lo fa manifestando il Suo amore. Quella di Gurdjieff è una via che relativizza la verità, che distorce la morale secondo i propri scopi, che inverte il concetto di Bene e di Male, che non contempla l’amore per il prossimo, che sovverte l’intero sistema di valori della società.
Una via che provoca gravi conseguenze fisiche e psichiche nei suoi adepti, se non addirittura la morte nei casi più gravi, è una via oscura, pericolosa e luciferina. Ma per fortuna quello di Gurdjieff non è l’unico cammino «spirituale» a disposizione dell’umanità. Ce n’è uno di molto più sicuro e luminoso, che ci insegna la bellezza dell’amore per il prossimo e del dono gratuito di sé, quello di Gesù Cristo: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).
Note
1 Cfr. L. Pauwels, op.cit.; si veda in nota a pag. 46.
Dopo le recenti manifestazioni svoltesi a Berlino e Londra, con migliaia di cittadini accorsi li per dissentire a vario titolo sulla gestione dell’emergenza Covid, la levata di scudi del “mainstream Dem” contro di essi è stata unanime e più che mai feroce. La tecnica per screditare i dissidenti è sempre la stessa: ridurli in blocco, “ad hominem”, in “complottisti” (la Repubblica), “negazionisti” (il Manifesto) o, come Travaglio ha fatto sul Fatto Quotidiano, in “scemi no-mask”… Chiaramente nessuna delle testate giornalistiche sopra citate si è minimamente sognata poi di analizzare i motivi della protesta, nè tanto meno di spiegare l’uso delle “categorie” a cui si è ricorso per inquadrare coloro che criticano determinati messaggi dell’”uffialità pandemica”. Eppure, visto il dilagare del dissenso ovunque, un’analisi di questo tipo sarebbe oggi opportuna, anzi necessaria. Negli ultimi anni il “complottismo” sembra infatti essersi riqualificato da risibile tara intellettuale di pochi disadattati in un’emergenza sociale ed..economica.
Ma evidentemente lo scopo di certa stampa, oltre modo allineata al potere, non è più quello di informare il lettore, ma semmai quello di consolidare tramite reiterazione il potere stesso e il sistema di idee a cui è abituato il lettore, senza fornire alcun contributo informativo sulla formazione di quelle stesse idee. E così nessuno parla più di complotto, ma si taccia di “complottismo” proprio chi invece i complotti non solo non li fa, ma addirtittura vorrebbe svelarli e denunciarli.
La premessa più ovvia è che i complotti sono sempre esistiti, fanno parte del complicato bagaglio della storia, delle relazioni socioeconomiche, sicché credervi non è mai stato indice di malattia né, tanto meno, di complottismo. Ricordate come nel 2001-2003 i “governi democraticamente eletti” cospiravano per far credere ai propri elettori che in Iraq si progettava lo sterminio dell’umanità, così da poterlo radere al suolo a spese di tutti e a beneficio di pochissimi ? Il “complotto” fu successivamente smascherato e smascherato fu anche quello che nel 2010 permise a poche case farmaceutiche di vendere miliardi di vaccini facendo credere al mondo che il virus H1N1 (la suina) avrebbe causato una pandemia catastrofica epocale. (l’Italia nel 2011 butto letteralmente nel cesso circa 10 milioni di dosi di quel vaccino, comprato a spese sel SSN !). Ai sostenitori di questi complotti, conseguentemente etichettati come complottisti, nel primo caso si opponeva la tesi istituzionale secondo cui in Iraq i terroristi erano finanziati e addestrati da un miliardario pazzo e nel secondo che senza vaccino milioni di umani sarebbero morti a breve e raccolti sui marciapiedi. Quanto osservato sopra mette seriamente in crisi le pretese epistemologiche di chi si spende oggi contro la piaga del complottismo. Infatti, a prescindere dalla verosimiglianza e razionalità delle ipotesi messe in campo oggi dai complottisti, il solo fatto di “squalificarli” per la loro adesione a idee “non ufficiali” è antiscientifico in partenza perché implica una “fallacia ad auctoritatem”. L’ufficialità essendo un attributo politico, non epistemologico, non può essere associato “tout course” alla correttezza, al rigore , al buon senso, insomma, alla verità… Il suo messaggio esprime semplicemente la fiducia del destinatario nel sistema politico che lo sancisce, non nel messaggio stesso. Quella del complottismo è quindi una mera questione di “auctoritas”, e poco importa se sono loro poi, gli inquisitori stessi, i primi a violare l’obbligo della critica delle fonti. Se oggi i complottisti sono antiscientifici, qualche secolo fa sarebbero stati eretici, empi o blasfemi. Scientifico o meno, il complottismo è sempre stato un indicatore di fiducia nell’autorità. Per questo i giornali di regime non se ne occupano, se non in chiave denigratoria. Negli ordinamenti democratici moderni, dove non esiste formalmente una verità di Stato da imporre con la forza pubblica, l’adesione dei cittadini ai messaggi approvati dal sistema di potere in carica misura la loro disposizione ad accoglierne l’agenda politica. Detto in maniera più semplice, la lotta al complottismo oggi è una lotta per il consenso. Oggi l’intero arco delle TV e i maggiori gruppi editoriali sono diventati i custodi del consenso, per loro la semantica del complotto è fondamentale che sia riqualificata come disturbo mentale, ossessione persecutoria, mera idiozia, che non merita quindi l’attenzione dei sani… La pratica di dichiarare pazzi gli oppositori politici è comune a molti regimi. Nella Russia sovietica lo psichiatra Andrei Snezhnevsky e i suoi collaboratori ritenevano che il dissenso politico fosse il sintomo di una (mai udita..) “schizofrenia latente”. Nell’odierna caccia al complottismo, chi contesta la vulgata ufficiale della pericolosità sterminatrice di Sars-Cov-2 o l’efficacia dei vaccini o la loro non pericolosità, viene trattato come persona socialmente pericolosa, squilibrato, e la squalificazione “ad personam” raggiunge la repressione fisica nell’imposizione di un TSO, come accaduto e come suggerito da più parti politiche, persino dal ministro della sanità Speranza.
Il risultato manipolatorio, come acutamente sostenuto da “Il Pedante”, è quello della paura della paura. Il timore che chi presiede i centri di potere politico, finanziario e imprenditoriale possa agire contro l’interesse delle comunità per realizzare i propri particolari e inconfessati interessi, e che lo faccia mentendo per non compromettere il consenso, ma questo timore è un timore da reprimere per non apparire deboli e malati. Non importa se alla follia di certe teorie complottiste corrisponda una dimostrata follia di certe azioni del potere in carica: la mascherina all’aperto, i banchi a rotelle, la chiusura generalizzata di un’intera Nazione, ecc; nel paradigma del complotto, per gli “ufficialisti”, le narrazioni alternative sono solo paranoie, paranoiche in quanto tali. Così purtroppo “gli abusi e le menzogne che coprono gli abusi, laddove esistono, si trasformano in complotti non per il machiavellismo di chi li ordisce, ma per la complicità di chi non li denuncia: per paura di averne paura”. continua Il Pedante :”L’idea di complottismo, integra uno dei tanti volti della tecnocrazia. Perché mortifica le opposizioni dialettiche e quindi la sorveglianza democratica (svolta proprio dai complottisti…ndt), suggerisce l’idea di un buon governo in quanto governo e di un rigore scientifico garantito da chi ha la forza di reclamarne la titolarità, non dai suoi risultati.
In ciò promette ai governati il vanto della salute mentale e di immaginarsi, dopo millenni di lotte tra chi esercita il potere e chi lo subisce, al capolinea della storia, cittadini di un mondo vocato al bene comune dove il sospetto è obsoleto e la paura un peccato.”
L’idea di Bachofen di un matriarcato primordiale e la sua teoria dei “circoli culturali” sono state sviluppate da un altro storico e archeologo, uno specialista in paleo-epigrafia, Herman Wirth (1885-1981).
Le teorie di Wirth si basano sull’ipotesi presa in prestito dall’autore indiano Bala Gandhara Tilak (1856-1920) [1], che la civiltà originaria proto-indoeuropea si formò nel tardo Paleolitico (la cultura aurignaziana) nelle terre del circolo polare nordico. Questa ipotesi si basava sull’interpretazione dei dati dell’astrologia indiana, dei testi vedici e dei miti indù, iraniani e greci che parlano dell’esistenza nell’antichità remota di un paese popolato nell’estremo nord (Hyperborea). Questo continente era descritto nei Veda come “la terra del cinghiale bianco”, Varahi e “l’isola della luce”, o Sweta Dvipa. La tradizione zoroastriana parla dell’antica dimora del primo uomo, la città di Vara, situata nell’estremo nord, da cui fu costretto a scendere verso sud perché la divinità oscura Angra Mainyu, il nemico del dio della luce, Ahura-Mazda, scatenò un “gran freddo” su queste terre. Tilak sostiene l’esistenza di questa proto-civilizzazione “nordica” sulla base dell’astrologia indiana, il cui simbolismo, secondo Tilak, diventa chiaro solo se accettiamo che le costellazioni erano originariamente osservate nelle regioni circumpolari, dove il giorno degli dei è uguale all’anno degli uomini.
Wirth adottò questa ipotesi e costruì la sua teoria su di essa, la “teoria iperborea” [2] o la teoria del “circolo culturale di Thule” [3], che rappresenta il nome greco della mitica città situata nel paese degli Iperboreani. Secondo questa teoria, prima dell’ultima ondata di raffreddamento globale, la zona circumpolare nell’Oceano Atlantico settentrionale ospitava terre abitabili i cui abitanti erano i creatori di un codice culturale primordiale. Questa cultura si formò in condizioni in cui l’ambiente naturale dell’Artico non era ancora così rigido e quando il suo clima era simile al clima temperato dell’Europa centrale moderno. C’erano presenti tutti i fenomeni annuali e atmosferici che possono essere osservati nell’Artico oggi: il giorno dell’Artico e la notte dell’Artico. I cicli solari e lunari annuali dell’Artico sono strutturati in modo diverso rispetto alle loro controparti alle medie latitudini. Pertanto, le fissazioni simboliche del calendario, la traiettoria del sole, la luna e le costellazioni dello zodiaco avevano necessariamente una forma diversa e schemi diversi.
Sulla base di un’enorme quantità di materiale archeologico, paleo-epigrafico (pitture rupestri, simboli paleolitici, antiche incisioni, ecc.), mitologico e filologico, Herman Wirth intraprese un tentativo di ricostruire il sistema primordiale del codice culturale di questa proto-civiltà artica. Al suo cuore, mise il proto-calendario ricostruito, le cui ultime tracce Wirth ha creduto essere costituite dalle rune scandinave, che ha attribuito alla remota antichità. Wirth ha proposto di esaminare questo calendario, che registra i momenti chiave dell’anno artico, come la chiave di tutte le versioni successive dei patrimoni mitologici, religiosi, rituali, artistici e filosofici che hanno continuato e sviluppato questo algoritmo primordiale nel corso delle migrazioni ad onda dei portatori della “cultura thuleana” nelle regioni meridionali. Quando applicati ad altre condizioni climatiche, tuttavia, molti dei modelli simbolici di questo calendario, altrimenti chiari nell’Artico, hanno perso il loro significato e la loro logica. Sono stati parzialmente trasferiti in nuove realtà, parzialmente congelati come reliquie ed in parte hanno perso il loro significato o ne hanno acquisito di nuovi.
Innanzitutto, questo cambiamento ha comportato una comprensione fondamentalmente nuova dell’unità base di tempo: al posto del giorno iperboreano, pari a un anno, il cerchio quotidiano, che è molto più chiaramente definito nelle regioni a sud del cerchio polare, divenne la misura degli eventi della vita umana. Inoltre, i punti di localizzazione degli equinozi di primavera ed autunno cambiarono rispetto al movimento verso sud. Tutto questo ha gradualmente confuso la chiarezza cristallina e la semplicità della matrice primordiale.
Wirth credeva che la sua ricostruzione del complesso sacro della cultura di Thule fosse al centro di tutti i tipi storici di scrittura e lingua, così come i toni musicali, il simbolismo dei colori, i gesti rituali, le sepolture, i complessi religiosi, ecc.
Lo studio di questa cultura ha costituito la base dei tentativi di Wirth di ricostruire ciò che ha definito “proto-scrittura” o “proto-script” dell’umanità. Wirth ha pubblicato i risultati dei suoi studi in due opere monumentali, Der Aufgang der Menschheit (The Emergence of Mankind) [4] e Die Heilige Urschrift der Menschheit (The Sacred Proto-Script of Mankind) [5], entrambi dotati di un enorme lotto di tavole sinottiche, illustrazioni comparative di scavi archeologici, sistemi di scrittura, ecc.
Matriarcato nordico
Wirth ha abbracciato la nozione di matriarcato primordiale di Bachofen ed ha attribuito alla “cultura di Thule” una forma di civiltà matriarcale. Ha suggerito che la credenza che il genere femminile sia incline alla materialità, alla corporeità, alla ctonità e alle specificità empiriche è puramente un prodotto della censura patriarcale e che il matriarcato potrebbe essere non meno, in realtà un fenomeno perfino più spirituale del patriarcato. Wirth credeva che le società dominate da donne e sacerdoti, religioni e culti femminili rappresentassero i tipi più avanzati di cultura iperborea, che definì la “cultura delle donne bianche” (weisse Frauen).
Wirth ha quindi presentato una visione del tutto particolare sulla relazione tra matriarcato e patriarcato nella cultura arcaica della regione mediterranea. Secondo il suo punto di vista, le forme di cultura più antiche del Mediterraneo erano quelle stabilite dai portatori del matriarcato iperboreano, che in varie fasi discesero dalle regioni circumpolari, dal Nord Atlantico, dal mare (e navi con quadrifogli sulla poppa erano loro caratteristiche). Queste erano i popoli menzionati negli antichi manufatti del Vicino Oriente come “popoli del mare”, o am-uru, da cui il nome etnico degli Amorei. Il nome Mo-uru, secondo Wirth, un tempo apparteneva al centro principale degli Iperborei, ma fu trasmesso insieme ai nativi del Nord nelle loro ondate migratorie verso nuovi centri sacri. È a queste onde che dobbiamo il sumero, l’accadico, l’egiziano (la cui scrittura pre-dinastica era lineare), le culture ittita-hurrita, minoica, micenea e pelasgiana. Tutti questi strati iperborei erano strutturati attorno alla figura della Sacerdotessa Bianca.
Il patriarcato, secondo Wirth, fu portato da immigrati dall’Asia, dalle zone steppiche di Turan, che distorcevano la primordiale tradizione iperborea e si imposero sulle molto diverse culture mediterranee – valori rudi, violenti, aggressivi e utilitaristici che contrastavano (in peggio) le pure forme spirituali del matriarcato nordico.
Così, in Wirth abbiamo la seguente ricostruzione: il tipo primordiale, spirituale e altamente sviluppato della cultura matriarcale del circolo culturale iperboreo si è diffuso da un centro circumpolare, principalmente mare, penetrando nel Mediterraneo, raschiando l’Africa e raggiungendo anche la costa meridionale dell’Asia fino alla Polinesia, dove la cultura Maori conserva ancora tracce dell’antica tradizione artica. Un’altra propaggine del centro di Mo-uru nel Nord Atlantico migrò nel Nord America, dove pose le basi del codice culturale di molte tribù. Uno degli impegni di Wirth era di dimostrare un’omologia tra questi due rami che si disperdevano dalla cultura di Thule – l’Europa e il Mediterraneo e più oltre l’Africa e il Pacifico da un lato, il Nord-americano dall’altro [6].
Nel frattempo, nell’Asia continentale si formò un polo culturale che rappresentava l’embrione del proto-patriarcato. Wirth associava questa cultura a naturalismo crudo, culti fallici e un tipo di cultura marziale, aggressiva e utilitaristica, che Wirth riteneva essere inferiore e asiatica. Abbiamo dedicato un intero volume separato a una descrizione più dettagliata delle opinioni di Herman Wirth. [7]
Il significato delle idee di Wirth in geosofia
Molti aspetti delle opere ingiustamente dimenticate di Herman Wirth riservano attenzione allo studio dell’antropologia plurale. Prima di tutto, la sua ipotesi estremamente feconda del circolo culturale di Thule, che di solito viene scartata fin dall’inizio senza un’attenta analisi della sua argomentazione, è così ricca che merita seria attenzione in sé. Se una tale ipotesi consente la risoluzione di così tanti problemi storici e archeologici associati alla storia dei simboli, segni, miti, rituali, geroglifici, il calendario, la scrittura e le più antiche visioni della struttura dello spazio e del tempo, allora questo da solo è sufficiente per garantire un’indagine approfondita. Anche se le opere di Wirth contengono molte affermazioni che sembrano inequivocabilmente sbagliate o molto controverse, possiamo metterle da parte e cercare di capire l’essenza della sua teoria che, a nostro avviso, è una versione straordinariamente costruttiva che amplia la nostra comprensione delle epoche arcaiche dell’antica storia dell’umanità. La teoria del circolo culturale di Thule non ha bisogno di essere accettata incondizionatamente, ma è necessaria una valutazione del suo potenziale interpretativo.
In secondo luogo, la valutazione positiva di Wirth sul matriarcato è estremamente interessante e aggiunge peso alla simpatia per Bachofen. In effetti, abbiamo a che fare con un’interpretazione di una civiltà matriarcale condizionatamente ricostruita dalla posizione di quello che è il patriarcato, almeno il più nominale, a cui la nostra società si è abituata. Wirth propone un’interpretazione alternativa del Logos femminile, un tentativo di vedere il Logos della Grande Madre attraverso occhi diversi. Anche questa è una proposta estremamente anticonvenzionale e fertile.
Terzo, nelle teorie di Wirth possiamo vedere chiari analoghi alle ricostruzioni sia di Spengler che di Frobenius. Se Frobenius e, in particolare, Spengler si schieravano dalla parte della cultura indo-europea (turaniana, euroasiatica), cioè dal lato del patriarcato mentre lo interpretavano, Wirth propone di guardare le cose dal punto di vista della civiltà delle Donne Bianche, cioè, dalla posizione della primordiale cultura mediterranea che ha preceduto l’invasione del “popolo sui carri da guerra”.
NOTE: [1] Tilak, B.G., Arkticheskaiia rodina v Vedakh (Moscow: FAIR-PRESS, 2001). In inglese: Tilak, B.G., The Arctic Home in the Vedas: Being Also a New Key to the Interpretation of Many Vedic Texts and Legends (Poona City: Tilak Bros, 1903).
[2] Dugin, A.G., Znaki Velikogo Norda: Giperboreiskaiia Teoriia (Moscow: Veche, 2008). La traduzione in inglese dell’introduzione è disponibile qui.
[3] Wirth, H., Khronika Ura-Linda. Drevneishaiia istoriia Evropy (Moscow: Veche, 2007). In tedesco: Wirth, Herman. Die Ura-Linda Chronik (Leipzig: Koehler & Amelang, 1933).
[4] Wirth, H., Der Aufgang der Menschheit. Forschungen zur Geschichte der Religion, Symbolik und Schrift der atlantisch-nordischen Rasse (Jena: Diederichs, 1928).
[5] Wirth, H., Die Heilige Urschrift der Menschheit. Symbolgeschichtliche Untersuchungen diesseits und jenseits des Nordatlantik (Leipzig: Koehler & Amelang, 1936).
[6] Il titolo completo del Die Heilige Urschrift der Menschheit di Wirth specifica “su entrambe le sponde del Nord Atlantico.” Vedi nota 5.
[7] Vedi nota 2. Traduttore: Jafe Arnold Capitolo 22 della Parte 2, “Teorie delle civiltà: criteri, concetti e corrispondenze”, di Noomachia: Guerre della mente – Geosofia – Orizzonti e civiltà (Moscow, Akademicheskii Proekt, 2017).
L’occidentalizzazione non ci sta portando allo sviluppo, sta guidando l’orologio per assistere alla distruzione ogni volta che si sente lo sviluppo delle forze americane comprendere la distruzione. Come dice il professor Dugin “Aspetti importanti della visione del mondo eurasiatica è un’assoluta negazione della civiltà occidentale secondo l’opinione degli eurasiatici, l’occidente con l’ideologia del liberalismo è un male assoluto”.
Come nei tempi moderni sono nate tre ideologie politiche nella visione del mondo, vale a dire il liberalismo, il comunismo e il fascismo. Il professor Dugin scrive nel suo libro La quarta teoria politica “Il soggetto del comunismo era la classe. Il soggetto del fascismo era lo stato, nel fascismo italiano sotto Mussolini, o la razza nel nazionalsocialismo di Hitler. Nel liberalismo, il soggetto era rappresentato dall’individuo, liberato dal tutte le forme di identità collettiva e qualsiasi “appartenenza” (l’appartenance). Mentre la lotta ideologica aveva avversari formali, intere nazioni e società, almeno in teoria, erano in grado di selezionare il loro soggetto di scelta – quello di classe, razzismo o statalismo, o individualismo La vittoria del liberalismo ha risolto questo problema: l’individuo è diventato il soggetto normativo nel quadro di tutta l’umanità.
D’ora in poi il singolo soggetto non è più il risultato di una scelta, ma è una sorta di dato obbligatorio. L’uomo è liberato dalla sua “appartenenza” a una comunità e da ogni identità collettiva “,
L’occidentalizzazione è male perché è “Indubbiamente razzista è l’idea della globalizzazione unipolare. Si basa sul fatto che la società occidentale, specialmente americana, equipara la sua storia e i suoi valori alla legge universale e cerca artificiosamente di costruire una società globale basata su questi valori locali e storicamente specifici: democrazia, mercato, parlamentarismo, capitalismo, individualismo, diritti umani e sviluppo tecnologico illimitato. Questi valori sono locali e la globalizzazione sta cercando di imporli a tutta l’umanità come qualcosa che è universale e preso per Questo tentativo implica implicitamente che i valori di tutti gli altri popoli e culture sono imperfetti, sottosviluppati e soggetti a modernizzazione e standardizzazione basata sul modello occidentale.
La globalizzazione non è quindi altro che un modello diffuso a livello globale di etnocentrismo dell’Europa occidentale, o, piuttosto, anglosassone, che è la manifestazione più pura dell’ideologia razzista.” (The Fourth Political Theory)
L’America non è una nazione o una società, è l’impero più imperialista della storia mondiale, cioè nelle vesti del liberalismo.
L’America non è la regola della verità, ma il circolo periferico del male e dell’oscurità. In nome della libertà l’America colonizza gli altri, in nome della pace l’America costruisce la sua Strategia di guerra per ottenere il controllo di altri territori. In nome del libero mercato, l’America crea uno spazio per infiltrarsi nell’economia degli altri. In nome dello sviluppo l’America distrugge la cultura, le tradizioni e gli ideali di altre civiltà.
Dugin è il salvatore perché dice che l’obiettivo globale di tutte le civiltà dei tempi attuali è di salvare l’eredità dell’umanità “L’impero americano dovrebbe essere distrutto”.
La corona è un antico simbolo degli eletti, del voto, del sacro matrimonio. Durante i matriarcati non si ereditava il trono del re, ma questo era eletto dalla sacerdotessa, personificazione della Madre Terra. Il capo del candidato al trono era incoronato con una corona di fiori, che simboleggiava il grembo fertile, fornendo cosi un suffragio a unirsi a lui nel santo matrimonio. Prima che lo zar innalzasse la corona per porla sulla testa dello “sposo”, la testa stessa si spalmava con l’olio speciale “crisma”. Nell’antica India, rappresentava la sacra cerimonia delle nozze. La Regina (sacerdotessa) incarnava lo spirito di Sati, incarnazione della vergine Kali, la consorte di Shiva, la dea della creazione e della distruzione e, esattamente un anno dopo, Shiva diventa Shavu (un corpo senza vita), ornato con una collana di teste di cadaveri umani; mentre Kali in un’incarnazione inferocita di Durga (la dea guerriera) porrà un’altra corona di fiori durante il rito funebre di Shavu.
Echi di quest’antica cerimonia si possono trovare ancora oggi. Questo il rito propiziatorio d’incoronazione: il re che sposa il suo paese, incoronandosi e giurando fedeltà alla sua sposa. Alcune analogie con i simboli dell’incoronazione possono essere viste nel rituale di aggiudicazione (“condita con alloro”, rito greco).
Per i vincitori della competizione: una delle muse sceglie la sua sposa, le fa indossare una corona, che consegna come trofeo al suo “caro amore”. Il matrimonio simbolico del re e della terra si ritrova nei testi biblici: “E Tolomeo andò ad Antiochia e posò due corone sulla testa d’Asia e d’Egitto” (1 Macc I, 11,13).
La corona simboleggia: i premi, gli onori, la completezza, la perfezione, l’immortalità e la grandezza. La simbolica immagine della corona sulla testa rappresenta la sede del potere spirituale e come l’immagine dell’eternità, così come pure simbolo di vegetazione di una personificazione delle forze vitali. La corona, in molte tradizioni, è una peculiarità della divinità. Nei tempi antichi, le corone si usavano nelle molteplici cerimonie (compresi i funerali) e alle feste, come segno di unione tra i vivi e i morti, tra gli antenati e i discendenti; la connessione con il culto degli antenati, dando in tal modo un’idea della corona, come simbolo d’immortalità. Poi nel tempo, il significato originale dell’immagine della corona è stato ampliato. Ad esempio, nell’antica Grecia le corone erano assegnate ai vincitori di giochi in onore del mitico eroe Pelope. Più tardi ancora, le corone d’alloro sono state assegnate durante le premiazioni ai giochi olimpici, come premi reali, quale segno di gloria e poi, nell’antica Roma, la corona d’alloro della vittoria in guerra (la corona del trionfo) divenne un attributo di Cesare, quale distintivo d’onore e grandezza.
Sino al 1915 le guerre si chiamavano semplicemente Guerra del…, Guerra dei…, dopo il 1915 venne introdotto il suffisso Mondiale a caratterizzare una guerra che coinvolgeva molti paesi di svariati continenti. Grande Guerra o Guerra Mondiale; il “prima” fu introdotto in seguito, quando alla prima seguì una seconda.
Tutti quindi si aspettano una Terza Guerra Mondiale, scongiurata già una volta durante la Guerra Fredda. Un rischio sfiorato con conseguente estinzione nucleare, ma mantenuto sempre dietro l’angolo pronto alla bisogna.
Eppure, nonostante la maggioranza delle persone non se ne sia accorta, in questo momento siamo in guerra. Ovvio che le persone non si accorgono del conflitto in atto, non sentono colpi di cannone, non vedono sfilate militari in assetto da guerra, nessun media parla di combattimenti o invasioni.
Eppure siamo in guerra, una guerra che ha cambiato i suoi paradigmi di ingaggio. Se un tempo a fronteggiarsi erano delle Nazioni, oggi quelle Nazioni sono solo luoghi dove muovere le nuove armi impiegate. Non più supersonici aerei ma addestrati finanzieri e corrotti, o ancora più facile, stupidi politici.
La globalizzazione ha cambiato anche il modo di conquistare territori e potere, la conquista è sovranazionale e il potere accentrato nelle mani dei capitali mondialisti.
Eppure si generano danni alla stessa maniera. Non vediamo città distrutte (distrutte no, ma malridotte si), ma paesi che svendono i propri colossi economici al grido di “privatizzazione”, oppure paesi che stritolati dalla crisi economica svendono isole , aeroporti, porti e anche “Partenoni” se necessita.
Il popolo subisce come in guerra, la quantità di popolazione che si colloca sotto la soglia di povertà aumenta in maniera costante e lineare, le persone si vendono la seconda casa, qualcuno anche la prima. Il lavoro è scarso e si registra una costante disoccupazione al 13%, ma nessuno si guarda bene dal parlare anche della sottoccupazione.
Insomma siamo al sistema guerra 2.0, niente armi, ma mercato e finanza che controllano il mondo globalizzato, prima assorbendo le aziende maggiori, poi le medie e quindi, senza sforzo, annullando economicamente le piccole. Aziendalizzazione anche del lavoro “borghese” rendendolo imprenditoriale e competitivo verso i singoli. Si aiutano anche con le armi biologiche?
Infine privatizzare anche strutture statali rese talmente inefficienti da bramare la privatizzazione per un salvataggio. Sanità, scuola, giustizia. A quel punto lo Stato per come lo intendiamo cessa di esistere e quindi si annullerà di conseguenza i Parlamenti e i Senati, che poi ci stanno già provando da un pezzo se ci penate bene.
Una guerra che, come la prima grande guerra, sarà ricordata come la Prima Guerra Economica Mondiale.
La domanda che ci poniamo è: “Chi sono i Partigiani in questa nuova forma di guerra?”
Alla fine di luglio, il presidente cinese Xi Jinping ha sottolineato l’importanza dello sviluppo delle capacità militari dell’aviazione militare nazionale.
L’Aviazione dell’Esercito Popolare di Liberazione Cinese rimane “la più grande forza aerea della regione” e la terza più grande al mondo, ha rivelato il Pentagono in un rapporto recentemente pubblicato sulla potenza militare cinese.
“L’aviazione militare cinese sta rapidamente raggiungendo le forze aeree occidentali attraverso una vasta gamma di capacità e competenze”, afferma il rapporto, riferendosi ai “2.500 aerei totali e circa 2.000” aerei da combattimento dell’aeronautica cinese. In questo senso il report ha anche individuato i presunti sforzi della Cina per espandere la sua influenza militare in tutta l’Asia orientale e nel mondo con l’aiuto della sua marina, che secondo il rapporto è ora “la più grande del mondo, con una forza militare complessiva di circa 350 navi e sottomarini inclusi oltre 130 navi da guerra”.
Il rapporto descrive l’Esercito Popolare di Liberazione come la più grande forza di terra permanente del mondo, che “ha continuato a svilupparsi in una forza di terra moderna, mobile e letale” lo scorso anno. Secondo il documento, il 2019 ha visto l’esercito cinese “mettere in campo sistemi di combattimento aggiornati e apparecchiature di comunicazione e migliorare la sua capacità di condurre e gestire complesse operazioni combinate e operazioni congiunte”.
Riferendosi al rapporto China Military Power 2020 del Pentagono, Kris Osborn, direttore della difesa della rivista The National Interest, ha osservato in un articolo pubblicato domenica da Fox News che gli Stati Uniti non sono solo preoccupati per le dimensioni dell’aviazione militare cinese, ma dalla “sofisticatezza e dalle tattiche multifunzionali con cui opera”. Ha ricordato che “come parte della sua discussione sulla potenza aerea cinese”, il rapporto menzionava l’esercito cinese che utilizzava sofisticati sistemi di difesa aerea S-400 di costruzione russa.
Il presidente cinese ha esortato le forze aeree a rafforzare la capacità di guerra con i droni I commenti sono arrivati dopo che il presidente cinese Xi Jinping ha sottolineato l’importanza di sviluppare veicoli aerei senza pilota per l’aviazione militare cinese, sottolineando che quest’ultima “già possiede aerei avanzati e armi di difesa aerea”.
“I droni stanno cambiando profondamente gli scenari di guerra. È necessario rafforzare la ricerca, l’istruzione e l’addestramento sul combattimento con i droni e accelerare l’addestramento dei piloti e dei comandanti di droni”, ha detto Xi agli studenti dell’università di aeronautica militare di Changchun, nella provincia di Jilin. Questo è seguito alla pubblicazione del rapporto annuale sulla potenza militare cinese da parte della US Defense Intelligence Agency nel 2019, rivelando che l’esercito popolare cinese “sta sviluppando nuovi bombardieri stealth a medio e lungo raggio” in grado di colpire “obiettivi regionali e globali”.
Il documento aggiungeva che i continui sforzi di Pechino per modernizzare la sua marina stavano “colmando il divario con le forze aeree occidentali attraverso un ampio spettro di capacità, come le prestazioni degli aerei, […] e la guerra elettronica”.