Socializzazione dell’economia

a cura di Filosofia Pagano

Con il termine socializzazione dell’economia si intende una teoria, attuata in ambito fascista repubblicano, di trasformazione sociale dell’economia nella quale la proprietà dei mezzi di produzione non è esclusiva del capitalista, ma è partecipata con i lavoratori impiegati nell’azienda.

La socializzazione nel fascismo
Il termine venne coniato nel 1943 per indicare una dottrina economica concepita dal fascismo all’interno del sistema economico corporativista della Repubblica Sociale Italiana, ma i prodromi vanno individuati nella Carta del Carnaro promulgata a Fiume nel 1920 e nella Carta del Lavoro del 1927. La socializzazione fascista avrebbe dovuto costituire, nelle intenzioni dei suoi proponenti, la “terza via” nei confronti dei due maggiori sistemi economici del Novecento: il capitalismo ed il comunismo, sia per quanto riguarda l’economia che per i suoi riflessi sul piano sociale. Prese parte al suo sviluppo anche l’ex comunista Nicola Bombacci (caro amico di Benito Mussolini) che contribuì a quest’opera riprendendo, tra l’altro, le teorie dell’anarchico ucraino Nestor Ivanovyč Machno, dal fabianesimo e dal distributismo geselliano. Amico di vecchia data di Benito Mussolini, nonché condivisore degli ideali socialisti del Fascismo, Nicola Bombacci collaborò a questa politica economica della Repubblica Sociale Italiana senza tuttavia rinnegare i propri ideali comunisti, ma sforzandosi di farli collimare con la forte politica sociale fascista.
La socializzazione dell’economia attuata durante la RSI, deriva dalla corporazione proprietaria ideata da Ugo Spirito, ovvero la corporazione che diventa proprietaria dell’azienda, ricercando l’equilibrio tra le due componenti della produzione: lavoro e capitale.[1]
La socializzazione si trovò affiancata agli altri due “capisaldi” dell’ideologia economica del fascismo: il “corporativismo” e la “fiscalità monetaria“, come base del sistema politico della democrazia organica.
« I nostri programmi sono decisamente rivoluzionari le nostre idee appartengono a quelle che in regime democratico si chiamerebbero “di sinistra”; le nostre istituzioni sono conseguenza diretta dei nostri programmi; il nostro ideale è lo Stato del Lavoro. Su ciò non può esserci dubbio: noi siamo i proletari in lotta, per la vita e per la morte, contro il capitalismo. Siamo i rivoluzionari alla ricerca di un ordine nuovo. Se questo è vero, rivolgersi alla borghesia agitando il pericolo rosso è un assurdo. Lo spauracchio vero, il pericolo autentico, la minaccia contro cui lottiamo senza sosta, viene da destra. A noi non interessa quindi nulla di avere alleata, contro la minaccia del pericolo rosso, la borghesia capitalista: anche nella migliore delle ipotesi non sarebbe che un’alleata infida, che tenterebbe di farci servire i suoi scopi, come ha già fatto più di una volta con un certo successo. Sprecare parole per essa è perfettamente superfluo. Anzi, è dannoso, in quanto ci fa confondere, dagli autentici rivoluzionari di qualsiasi tinta, con gli uomini della reazione di cui usiamo talvolta il linguaggio »
(Benito Mussolini, Milano, 22 aprile 1945)

Storia e definizione
Tale teoria economica venne elaborata e prevista nel Manifesto di Verona, documento che conteneva il programma politico del Partito Fascista Repubblicano, allora alla guida della neo costituita Repubblica Sociale Italiana. Il manifesto fu presentato durante il Congresso del PFR tenutosi a Verona il 14 novembre 1943. Fino ad allora, secondo i fascisti intervenuti a Verona, ogni realistico tentativo di apporre più ardite modifiche al sistema economico italiano era naufragato di fronte all’ostracismo dei poteri economici definiti come plutocrazia.
Nel Manifesto di Verona si affermava che la base della Repubblica Sociale Italiana e della dottrina economica del Partito Fascista Repubblicano è il lavoro (articolo 9); che la proprietà privata, frutto di lavoro e risparmio sarebbe stata garantita, ma non si sarebbe dovuta per ciò trasformare in entità disgregatrice della personalità altrui sfruttandone il lavoro (articolo 10). Tutto ciò che era di interesse collettivo, da un punto di vista economico si sarebbe dovuto nazionalizzare (articolo 11). Nelle aziende sarebbe stata avviata e regolata la collaborazione tra maestranze e operai per la ripartizione degli utili e per la fissazione dei salari (articolo 12). In agricoltura le terre incolte o mal gestite sarebbero state espropriate e riassegnate a favore di braccianti e cooperative agricole (articolo 13). L’Ente Nazionale per la casa del popolo avrebbe avuto l’obbiettivo di fornire una casa in proprietà a tutti (articolo 15). Si sarebbe costituito un sindacato dei lavoratori, obbligatorio, e avrebbe riunito tutte le categorie (articolo 16).
« Troppo capitalismo non significa troppi capitalisti, ma troppo pochi capitalisti »
(G. K. Chesterton, “The Uses of Diversity”, 1921)

Socializzazione delle imprese
Fu Mussolini già il 23 settembre 1943 nel formare il governo a volere l’istituzione del ministero dell’Economia corporativa, nominando ministro prima Silvio Gai e dal 1 gennaio 1944 Angelo Tarchi. Fu quest’ultimo ad accelerare la stesura del decreto legge sulla socializzazione.
La socializzazione delle imprese – vista con sospetto e boicottata dalla Germania nazionalsocialista, operante riforme socialiste su un diverso binario[2] – venne disposta inizialmente con il Decreto Legislativo del 12 febbraio 1944 N.375, alla firma di Benito Mussolini unita a quelle di Domenico Pellegrini Giampietro e Piero Pisenti. Per diretta conseguenza il compito venne assegnato al ministro dell’Economia corporativa l’ingegner Angelo Tarchi, che si insediò nella sede del ministero, a Bergamo.
La base della socializzazione è la totale assenza di lavoro dipendente, ovvero: ogni entità produttiva appartiene in egual misura a tutti i suoi lavoratori, senza più padroni né dipendenti. Ciò a differenza del capitalismo, dove un’entità produttiva è di proprietà di una persona o di una società di persone, anche estranee alla produzione, mentre la produzione è affidata a lavoratori dipendenti. E, a differenza della dottrina comunista, dove si ritiene che la proprietà privata dei mezzi di produzione debba essere abolita e collettivizzata in un sistema che l’assegna allo Stato stesso.
La socializzazione redistribuisce la proprietà, eliminando i rapporti umani di sudditanza e dipendenza salariati, confidando sulla naturale maggior responsabilizzazione dei lavoratori di fronte all’autogestione del loro lavoro e del loro capitale. Similmente al capitalismo, la teoria socializzatrice prevede il diritto alla proprietà privata, la libertà d’ iniziativa economica, il rispetto della legge della “domanda-offerta” e della libera concorrenza. La socializzazione, a differenza della collettivizzazione comunista, non prevede l’attuazione dei propri contenuti dottrinali mediante una rivoluzione espropriativa, ma mediante la proibizione legislativa del lavoro salariato e la contemporanea concessione di un credito sociale. La gerarchia e la distribuzione degli utilidelle grandi aziende verrebbe decisa attraverso il consenso di tutti i lavoratori dell’azienda, nello stile del corporativismo e in un’ottica di meritocrazia.
Gli industriali italiani erano naturalmente ostili ad una riforma così vasta e drastica, che avrebbe perlomeno sensibilmente ridotto il loro enorme potere e, sebbene ufficialmente avessero appoggiato la proposta, tentarono in ogni modo di affossare la legge.
Il 20 giugno 1944, ossia appena quattro mesi dopo il decreto legislativo, il dirigente della federazione fascista degli impiegati del commercio, Anselmo Vaccari, in un rapporto diretto a Mussolini riportò le difficoltà di far comprendere ai lavoratori il provvedimento socializzativo a causa della perdita di ascendente del fascismo tra la popolazione a causa delle sorti belliche.[3]
L’attuazione integrale della socializzazione era prevista, ironia della sorte, per il 25 aprile 1945.[4]
Difatti il 25 aprile 1945 tra i primi atti politico-amministrativi del CLNAI (il CLNAI era formato da: comunisti (PCI), cattolici (DC), azionisti (PdA), liberali (PLI), socialisti (PSIUP) e democratici-progressisti) dopo la sconfitta del fascismo nel nord Italia, vi fu proprio l’abrogazione del Decreto Legge sulla Socializzazione[5].

Critica
Per i critici di parte comunista, “socializzazione” non avrebbe il significato di parificazione totale delle ricchezze, in quanto, anche se la proprietà di una azienda è percentualmente uguale per tutti, la suddivisione dei profitti non sarebbe stata ugualmente la stessa, ma decisa dall’assemblea aziendale a seconda dei ruoli o delle capacità. Di conseguenza, i dirigenti nominati avrebbero potuto ricevere una percentuale superiore alle maestranze, e questi dirigenti avrebbero potuto anche essere gli ex-proprietari. Inoltre un’azienda meno produttiva di un’altra avrebbe inevitabilmente assicurato redditi netti suddivisi inferiori rispetto ad una più produttiva[6].
I sostenitori della socializzazione rispondono che il sistema non sarebbe più codificato dal diritto dello Stato o da contratti sindacali, ma lasciato liberamente all’autogestione dell’assemblea dei lavoratori di ogni azienda. L’operaio o l’impiegato, co-proprietari dell’azienda in cui lavorano, avrebbero perciò tutto l’interesse al successo ed all’espansione dell’azienda stessa. Si otterrebbe perciò una maggior responsabilizzazione al lavoro ed un maggior reddito per gli ex-dipendenti rispetto al salario.[7].

Note
^ Il comunista in camicia nera, Nicola Bombacci tra Lenin e Mussolini, Arrigo Petacco, Mondadori, 1997
^ R. Dubail “L’ordinamento economico nazionalsocialista”, Edizioni all’Insegna del Veltro
^ “I lavoratori considerano la socializzazione come uno specchio per le allodole, e si tengono lontano da noi e dallo specchio. Le masse ripudiano di ricevere alcunché da noi. È questo un preconcetto ed un preconcetto malevolo, perché i lavoratori italiani furono portati da Voi su un piano di dignità prima sconosciuto. La massa ragiona, anzi “sragiona”, in un modo assai strano. Addossa al fascismo e a noi il tracollo sul campo di battaglia, l’alleanza con la Germania che reputa funesta, l’invasione del territorio nazionale, la perdita dei possedimenti coloniali (dimenticando che l’Impero era stato creato da Voi); la distruzione delle città, i lutti sparsi dovunque copiosamente. Insomma, la massa dice che tutto il male che abbiamo fatto al popolo italiano dal 1940 a oggi supera il grande bene elargitole nei precedenti venti anni e attende dal compagno Togliatti, che oggi pontifica da Roma in nome di Stalin, la creazione di un nuovo Paese di Bengodi, nel quale, accanto a un comunismo annacquato, cioè mediterraneo, direi quasi solare, dovrebbe sopravvivere una democrazia di marca anglo-sassone, pronta ad agire e frenare il prevalere delle ideologie che vengono da Oriente (…). È certo che oggi i lavoratori affermano che la socializzazione non si farà, o, se si farà, essa contribuirà a rafforzare i ceti capitalistici e a mantenere in istato di soggezione il lavoro. Su questo terreno l’influenza germanica è da essi considerata negativa e, comunque, tale da far rimandare la soluzione del problema al dopoguerra. Il che fa dileguare ogni speranza e allontana sempre più da noi lavoratori, che ci considerano, a torto s’intende, gli sgherri del capitale; fa gravare su di noi il disprezzo, perché affermano che non siamo in buona fede, e fa ritenere l’annuncio della socializzazione come l’ennesimo espediente per attirare nella nostra orbita i pochi ingenui che ci accorderebbero ancora credito.” – Rapporto Vaccari al Duce, in: Santo Peli, Storia della Resistenza in Italia, Einaudi, Torino, 2006, ISBN 88-06-18092-7, p. 69; Edoardo e Duilio Susmel Opera Omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze; F. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Einaudi, Torino, 1963; Gianni Oliva, La Repubblica di Salò, Giunti, 1997.
^ Antonio Fede, Appunti critici di storia recente, Ed. Coop. Quilt, Messina 1988, pag. 41
^ DECRETO DEL C.L.N. SUI CONSIGLI DI GESTIONE
25 aprile 1945
Il Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia, considerati gli obiettivi antinazionali del decreto legislativo fascista del 12 febbraio 1944 n. 375 sulla pretesa “socializzazione” delle imprese, con la quale il sedicente Governo fascista repubblicano ha tentato di aggiogare le masse lavoratrici dell’Italia occupata al servizio ed alla collaborazione con l’invasore, considerata l’alta sensibilità politica e nazionale delle maestranze dell’Italia occupata che, astenendosi in massa da ogni partecipazione alle elezioni dei rappresentanti nei consigli di gestione, hanno manifestato la loro chiara comprensione del carattere antinazionale e demagogico della pretesa “socializzazione” fascista,
considerata la situazione di fatto creata dal decreto legislativo del 12 febbraio 1944 e dai successivi decreti di socializzazione di singole aziende, al fine di assicurare, all’atto della liberazione dei territori ancora occupati dal nemico, la continuità ed il potenziamento dell’attività produttiva, nello spirito di una effettiva solidarietà nazionale, decreta:
Art. 1 – Il decreto legislativo del 12 febbraio 1944, n. 375, e quello del 12 ottobre 1944, n. 861, promulgati dal cosiddetto Governo fascista repubblicano, sono abrogati.
Art. 2 – Fino a nuovo e generale regolamento della materia con atti legislativi del Governo nazionale, l’amministrazione delle aziende contemplate nei decreti sopracitati resta affidata ai consigli di gestione nazionale, coi poteri previsti dai decreti medesimi per i consigli di gestione delle aziende “socializzate”.
Art. 3 – I sedicenti rappresentanti delle maestranze nei consigli di gestione fascisti si dichiarano decaduti da ogni loro mandato nell’amministrazione dell’azienda. Tale mandato sarà considerato ad ogni effetto nullo, salvo quanto riguarda le eventuali sanzioni penali in cui i sedicenti rappresentanti delle maestranze siano incorsi per il reato di collaborazione col nemico o altro.
Art. 4 – La rappresentanza delle maestranze nei consigli di gestione prevista dai decreti sopra citati, viene affidata, nei consigli di gestione nazionale, coi diritti e coi doveri e le prerogative ad essi inerenti, a rappresentanti appositamente e liberamente eletti dalle maestranze, secondo norme che saranno ulteriormente fissate. La designazione elettiva di tali rappresentanze dovrà aver luogo non oltre tre mesi dopo la data della liberazione.
Sino al momento in cui la nuova rappresentanza liberamente eletta dalle maestranze potrà entrare in funzione, la rappresentanza delle maestranze stesse nei consigli di gestione nazionale resta affidata, con tutti i diritti, i doveri e le prerogative, ad essa inerenti, ai comitati di liberazione nazionale aziendali, costituiti nella fase della lotta clandestina.
Art. 5 – I diritti, i doveri e le prerogative previste dagli abrogati decreti per il cosiddetto “capo dell’azienda” vengono attribuiti al responsabile tecnico della produzione.
Là dove l’azienda sia sottoposta, in base a decreto d’epurazione, a gestione commissariale, le funzioni del capo d’azienda -ferme restando le prerogative del consiglio di gestione nazionale- sono attribuite al commissario.
Art. 6 – Le disposizioni dei decreti sopra citati per quanto concerne la fissazione del limite massimo dei profitti da distribuire al capitale e la partecipazione agli utili restano immutate, in quanto esse non entrino in contrasto con le disposizioni del presente decreto.
Art. 7 – Gli utili attribuiti ai lavoratori in ogni singola azienda verranno versati ad uno speciale fondo unico di solidarietà nazionale, da impiegarsi inopere di assistenza e di previdenza sociale nell’interesse delle masse lavoratrici, con particolare riguardo alle necessità immediate che nascono dalla situazione (mense popolari, assistenza infanzia, orfani di guerra, eccetera).
C.L.N., Bollettino ufficiale degli atti del C.L.N.-Giunta regionale di governo per il Piemonte, 25 aprile 1945, tratto da:
Perticone, G. La repubblica di Salò, Ed. Leonardo, Roma 1947
^ L. Gruppi, Togliatti e la via italiana al socialismo, Ed Riuniti, 1976, pag. 153
^ Antonio Fede, Appunti critici di storia recente, Ed. Coop. Quilt, Messina 1988, pag. 47
Bibliografia [modifica]
Giano Accame, Il Fascismo immenso e rosso, Settimo Sigillo, Roma, 1990.
E. Amicucci, I 600 giorni di Mussolini, Faro, Roma 1948.
G. Barnes, Giustizia sociale attraverso la riforma monetaria, Prima edizione 1944, Venezia 1944.
Giorgio Bocca, Mussolini socialfascista, Milano, Garzanti, 1983.
Paolo Buchignani, Fascisti rossi, Mondadori, 1998.
Filippo Carli, L’idea partecipativa, Settimo Sigillo, Roma, 2003.
F. Giannini, Il sangue e l’oro, Settimo Sigillo, Roma, 2002.
F. Giannini, Dal 25 Luglio a piazzale Loreto, Settimo Sigillo, Roma 2004.
Enrico Landolfi, Ciao, rossa Salò. Il crepuscolo libertario e socializzatore di Mussolini ultimo, Edizioni dell’Oleandro, 1996.
Arrigo Petacco, Il comunista in camicia nera, Nicola Bombacci tra Lenin e Mussolini, Mondadori, 1997.
Luca Leonello Rimbotti, Il fascismo di sinistra. Da Piazza San Sepolcro al Congresso di Verona, Settimo Sigillo, Roma, 1989.
Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, 1972.
Rutilio Sermonti, Lo Stato Organico, Settimo Sigillo, 2003.
Rutilio Sermonti, Una vita di pensiero e militanza, Diana edizioni, 2007.

Socializzazione dell’economia
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Pubblicato da vincenzodimaio

Estremorientalista ermeneutico. Epistemologo Confuciano. Dottore in Scienze Diplomatiche e Internazionali. Consulente allo sviluppo locale. Sociologo onirico. Geometra dei sogni. Grafico assiale. Pittore musicale. Aspirante giornalista. Acrobata squilibrato. Sentierista del vuoto. Ascoltantista silenziatore.

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