di Giuseppe Aiello
Molti sostenitori o seguaci delle tradizioni indoeuropee, per ben distinguerle o contrapporle alle tradizioni semitiche, sottolineano spesso come le prime non si basino sulla “paura”, sulla “umiliazione”, sulla “mortificazione” di sé (che evidentemente secondo loro caratterizzerebbero gli abramitici) ma onorano la divinità invitando a “stare eretti” in mezzo alla fatalità della vita, per l’onore della divinità che è in ogni essere umano…
Ora, non voglio parlare a nome del cristianesimo perché il discorso sarebbe complesso e con numerosi distinguo, ma mi sento di affermare con relativa certezza che quantomeno nell’ebraismo e nell’Islam:
1) non vi è “paura”, ma ciò che in arabo è taqwa, che è quel timore di venir meno all’obbedienza e alla propria responsabilità di fronte alla Divinità, di non essere in grado di eseguire l’ordine divino, insomma ciò che in ambito militare ogni guerriero prova nei confronti del superiore e del comandante in capo.
2) non vi è né “umiliazione” né tantomeno “mortificazione” di Se, ma solo della parte inferiore di sè, l’ego, la nafs inferiore, ciò che è animale o se vogliamo, troppo umano, lungo il percorso della realizzazione spirituale. Studiatevi Evola e capirete la Jih@d.
Questo fraintendimento sull’atteggiamento di fondo rispetto alla Divinità, unitamente alla onnipresente (ed errata) contrapposizione monoteismo vs politeismo (questo, va detto, soprattutto per colpa dei teologi abramitici) è uno dei pregiudizi, diciamo così, più duri a morire, e per incomprensibili (per me) da 30 anni ormai che studio religioni e mitologie
