IL BRAHMAN FRA INDUISMO E BUDDHISMO

di Andrea Cecchetto

La più rilevante frattura dottrinale fra Induismo (e più in particolare Advaita Vêdânta) e Buddhismo è – si dice solitamente – la diversa concezione riguardo la realtà ultima. I buddhisti attribuiscono agli induisti la credenza in un principio sostanziale e personale: il “Sé” o Brahman. Ad esempio, scrive il Dalai Lama:

  • «Si può quindi dire che questa fonte suprema, la chiara luce, è vicina al concetto di un creatore. Ma bisogna stare attenti. Quando parlo di una fonte non devo essere frainteso. Non intendo dire che da qualche parte esista una forma di chiara luce concentrata, come una sostanza simile all’idea non buddista di brahman. Questo spazio luminoso non dev’essere deificato» (Dalai Lama; La natura del Buddha. Morte e immortalità dell’anima nel buddhismo).

Vi è, secondo me, un’enorme incomprensione. Andiamo con ordine.

Nel Buddhismo originario ciò che viene (giustamente) negato è l’esistenza di un sé individuale (l’io), e non la realtà dell’assoluto:

  • «Non sono in grado […] di discutere le differenze dottrinali fra buddhismo e induismo. Basti rilevare che il Buddha, quando insisteva sul fatto che gli esseri umani sono per natura «non-Âtman», parlava evidentemente del sé personale e non di quello universale […]. Ciò che […] Gautama nega è la natura sostanziale e l’eterna persistenza della psiche individuale» (Aldous Huxley; La Filosofia Perenne).
  • «[…] più si studia ciò che possiamo conoscere del buddhismo originario, più esso appare diverso dall’idea che se ne fanno in genere certi orientalisti; in particolare, sembra accertato che esso non comportasse affatto la negazione dell’Âtmâ o del “Sé”, ossia del principio permanente e immutabile dell’essere» (René Guénon; Autorità spirituale e Potere temporale).
  • «Se è ancora espressamente permesso a un Arhat di dire “io”, lo è solo per comodità, perché egli ha già da tempo superato la convinzione di possedere una sua propria personalità. Ma ciò non significa affatto – e non è detto da nessuna parte – che “non esiste un Sé”. Al contrario: vi sono dei passi dove, dopo l’elencazione dei cinque elementi di cui è intessuta la nostra “esistenza” evanescente e irreale, troviamo non l’abituale formula di negazione: “Questo non è il mio Sé”, bensì l’ingiunzione: “Rifugiati nel Sé”, così come il Buddha dice di aver fatto egli stesso [“Ho preso il Sé come mio rifugio”]» (Ananda K. Coomaraswamy; Induismo e buddismo).
  • «Esiste, o monaci, un non-nato, un non-divenuto, un non-creato, un non-formato. Se, o monaci, non esistesse questo non-nato […], non si potrebbe conoscere alcuna via di salvezza da ciò che è nato, divenuto, creato, formato» (Buddha; Udâna, 8, 3).
  • «Due piani di realtà esistono, o Ānanda, quello coeffettuato e quello non-coeffettuato. Questa è la cosa più alta, la cosa più eccellente, cioè a dire la pacificazione di tutti i coefficienti, la liberazione da ogni forma di esistenza, la distruzione, la soppressione, la cessazione della brama, il nirvana» (Buddha. Citazione tratta da: Vito Mancuso; I Quattro Maestri).

Quindi, anche il Buddhismo contempla una realtà assoluta. L’incomprensione verte piuttosto sulla concezione – ma sarebbe meglio dire: “non-concezione” – di questa realtà. Il Buddhismo la considera giustamente insostanziale, impersonale, ineffabile. Ma sbaglia quando attribuisce all’Induismo una concezione diversa e contraria, laddove essa è invece identica! Nelle Upanishadbrahman è scritto in minuscolo, ed è proprio insostanziale, impersonale, ineffabile: esso non è un dio, un soggetto, una persona, un essere, un ente, una cosa, una sostanza… niente di tutto ciò. Ogni concetto deve essere rimosso. Se si pensa qualcosa, non è quello. La formula per indicarlo è infatti “neti neti” (non-questo, non questo):

  • «Si mediti pure su quelle che sono le migliori forme <del brahman>. Indi le si respinga, poiché esse sono <null’altro che> mezzi per procedere in mondi sempre più elevati, fintanto che, giunti alla dissoluzione totale» (Maitry-upaniṣad, IV, 6).
  • «Benché nella sua forma manifesta il divino sia necessariamente molteplice, nella sua essenza non può essere né uno né molti. In altre parole, non è possibile definirlo. Il divino è ciò che resta quando si spoglia la realtà di tutto ciò che può essere percepito o concepito. È neti neti […]. L’espressione preferita dai vedantisti è ‘non due’» (Alain Daniélou; Miti e dèi dell’India. I mille volti del pantheon induista).

Il problema, piuttosto, è che Buddha ritiene deleterio perdersi in speculazioni metafisiche, e punta decisamente alla pratica della Liberazione (anche qui, però, non si discosta dall’obiettivo degli induisti, i quali perseguono lo stesso fine).

Insomma, il Buddha la pensava su questo tema proprio come gli induisti, ma evidentemente, al contrario di quest’ultimi, riteneva inutile o dannoso parlarne:

  • «[…] il Buddha si propone di superare tutte le soluzioni filosofiche e le formule mistiche in uso ai suoi tempi, per liberare l’uomo dalla loro influenza ed aprirgli la “via” verso l’Assoluto. Egli fa sua l’analisi spietata alla quale il Sâmkhya e lo Yoga preclassico sottoponevano il concetto di “persona” e di vita psicomentale, ma lo fa perché il “Sé” non ha nulla a che vedere con quella illusoria entità che è l’”anima” umana. Il Buddha però si spinge ancora più lontano del Sâmkhya-Yoga e delle Upanisad, perché rifiuta di postulare l’esistenza di un purusa o di un âtman. Egli nega, infatti, la possibilità di discutere su un qualunque principio assoluto, e nega la possibilità di avere una esperienza, anche approssimativa, del vero Sé, finché l’uomo non si sia “risvegliato”. Il Buddha rifiutava del pari le conclusioni della speculazione upanisadica: il postulato di un Brahman, puro spirito, assoluto, immortale, eterno, identico all’âtman – le rifiutava perché questo dogma rischiava di soddisfare l’intelligenza e, di conseguenza, impediva all’uomo di risvegliarsi. A considerare le cose più da vicino, ci si rende conto che il Buddha rifiutava tutte le filosofie e tutte le ascesi contemporanee perché le considerava idola mentis che innalzavano una specie di schermo tra l’uomo e la realtà assoluta, il solo e vero incondizionato. Numerosi testi canonici dimostrano che il Buddha non negò affatto una realtà ultima, incondizionata, di là dal flusso eterno dei fenomeni cosmici e psicomentali, bensì evitò di parlare troppo su questo argomento. Il nirvâna è l’assoluto per eccellenza, l’asamskrta, vale a dire ciò che non è nato né composto, che è irriducibile, trascendente, al di là di ogni esperienza umana […]. È possibile “vedere” il Nirvâna solo con “l’occhio dei santi” […], vale a dire con un “organo” trascendente, che non partecipa più al mondo caduco. Il problema fondamentale per il buddhismo, come per ogni altra iniziazione, era di mostrare il cammino e di forgiare i mezzi per ottenere questo “organo” trascendente che può rivelare l’incondizionato […]. Ma, per il Buddha, non ci si può “salvare” se non raggiungendo il Nirvâna, vale a dire superando il livello dell’esperienza umana profana e reintegrando il livello dell’incondizionato. In altri termini, è possibile salvarsi solo morendo a questa vita profana e rinascendo ad una vita transumana, impossibile a definire e a descrivere» (Mircea Eliade; Lo Yoga. Immortalità e libertà).

È quello che sostengono tutte le mistiche, orientali e occidentali. In pratica, il Buddhismo si è staccato dall’Induismo più per motivi pratici che non dottrinali.

Altra questione: solitamente, la critica che viene avanzata a questa mia idea di identità profonda del nucleo mistico delle due concezioni è la seguente: “Non puoi identificare il brahman induista con la vacuità buddhista”. Ed infatti, non lo faccio! La vacuità indica l’insostanzialità di tutti gli enti: nulla esiste di per sé, indipendentemente dal “tutto”, ma solo ed esclusivamente nella relazione con gli altri enti. Ma questo non significa che questo “tutto” non sia reale. Nāgārjuna – il grande filosofo e mistico buddhista del II-III sec. d.C. – viene spesso frainteso:

  • «[…] Nāgārjunamette ripetutamente in guardia i suoi interlocutori dal trattare la vacuità alla stregua di una negazione, vale a dire il vuoto alla stregua del nulla, tanto grande è il rischio di incorrere nell’errore nichilista […]. Ciò che Nāgārjuna nega non è l’esistenza delle cose, le cose infatti hanno un’esistenza relativa e dipendente, ma è la consistenza ontologica ascritta alle cose che le parole nominano» (Emanuela Magno; Nāgārjuna. Logica, dialettica e soteriologia).

La vacuità, quindi, non corrisponde al brahman indù, ma piuttosto alla mâyâ, la quale non nega affatto la realtà, ma semplicemente l’esistenza indipendente delle cose qualora considerate sostanze indipendenti dal principio assoluto, ossia dal brahman impersonale. Esse sono illusorie non in quanto aspetti del brahman ma, appunto, in quanto considerate “qualcosa” a sé; e questo è valido per l’intera manifestazione universale:

  • «[…] in sé, la Shakti non può essere che un aspetto del Principio e, se la si distingue per considerarla «separativamente», non è più che la “Grande Illusione”, vale a dire Mâyâ» (René Guénon; L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta).

Il brahman è equiparabile piuttosto alla talità o tathata buddhista (traducibile con quiddità):

  • «In cotesto Grande Veicolo […] in nuovo modo si concepisce il Buddha, non più come maestro spentosi nel nirvana […], ma come realtà assoluta […]. Noi, oltre la effimera illusoria apparenza, siamo quella identità assoluta che è la Buddhità […]: non può esservi né donatore, né dono, né atto di donare quando tutto, assolutamente tutto, è vuoto, all’infuori di quella indefinibile identità che si noma, per pura convenzione, tathata, l’identità assoluta, la quale coincide con il Buddha» (Giuseppe Tucci; Storia della filosofia indiana).
  • «Il grande merito del Buddhismo è quello di averci aperto la via alla visione della «talità» delle cose, ovvero all’intuizione dell’«originariamente puro nell’essenza e nella forma che è l’oceano della conoscenza trascendentale Prajna» […]. I Buddhisti adottano il termine «puro» nel senso di assoluto […]. L’«originariamente puro» indica ciò che è incondizionato, indifferenziato e privo di ogni determinazione; è una specie di superconsapevolezza nella quale non vi è opposizione tra soggetto e oggetto, e tuttavia vi è una piena coscienza delle cose […]. In un certo senso l’«originariamente puro» è il vuoto, ma un vuoto carico di vitalità. La talità è, perciò, i due concetti contradditori di vuoto e non vuoto in stato di autoidentità» (Daisetz Teitaro Suzuki; Vivere Zen).

Nell’immagine: il filosofo induista Śaṅkara e il filosofo buddhista Nāgārjuna.

IL BRAHMAN FRA INDUISMO E BUDDHISMO
IL BRAHMAN FRA INDUISMO E BUDDHISMO

Pubblicato da vincenzodimaio

Estremorientalista ermeneutico. Epistemologo Confuciano. Dottore in Scienze Diplomatiche e Internazionali. Consulente allo sviluppo locale. Sociologo onirico. Geometra dei sogni. Grafico assiale. Pittore musicale. Aspirante giornalista. Acrobata squilibrato. Sentierista del vuoto. Ascoltantista silenziatore.

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