a cura di Lux Elementis Oriens
In un solo sguardo “realizzare la nostra inifinità” vuole dire che implicitamente capisci tutti i fenomeni, non ti chiedi nemmeno “cosa stanno a fare proprio là” oppure cose oziose del tipo “da dove vengo, dove vado, chi sono…” perché tutto è splendente nella sua nuda evidenza, dato che tutto ora è in “ordine” nella tua vista e armonicamente connesso a tutto, anche mentre stai starnutendo o hai perso il treno.
Non è così perché lo pensi, ma perché lo vedi col tuo occhio/volto.
Forse è questo che tutti i non-buddhisti chiamano “Dio”, ma questo infinto splendore, nel buddhismo, non costituisce una realtà personale e separata.
Ognuno la pensi come vuole, ma non è forse più importante liberarsi dal pensato e fare il migliore uso del nostro pensiero più libero e alto? E se essendo ciò che è scomparisse e diventasse tutto?
Le “Leggi” di cui si parla qua sono – secondo la filosofia buddhista – una particolare accezione di “dharma” nel senso di “fenomeni coemergenti”, come c’è anche Dharma inteso come “insegnamento” e poi infine Dharma in quanto realtà-come-è; Lu Kuan Yu avrebbe reso la differenza come ho fatto ora, con maiuscole e minuscole, Paul Harris si compiace invece di tradurre come era dalla lingua pali del Gandhara, senza distinzioni, chi capisce capisce.
Per il buddhismo non esistono fenomeni separati, ma tutto e ogni cosa è collegata indissolubilmente e ogni goccia/particolare di questo oceano perfettamente coerente “sorge”, cioé emerge, grazie a tutto quello che è per come precisamente è.
Una legge, in tal senso, non ha bisogno di essere scritta o decodificata, basta che funzioni.
Cercare la verità è solo una pallida profezia del Vedere La Realtà senza-avere-bisogno-di-aggiungervi-dotte-considerazioni.
Summa scientia nihil scire.
