di Giuseppe di Re
Proprio come lo storico e filosofo Platone (428-347 a.C.) aveva riportato nel “Timeo” e nel “Crizia”, alcuni famosi dialoghi avvenuti tra il legislatore ellenico Solone e un anziano sacerdote egizio della casta sacerdotale di Sais riguardo all’esistenza della leggendaria isola poi sommersa di Atlantide, lo storico antico Erodoto (490-424 a.C.) riportò un’antica leggenda che narrava di una terra perduta chiamata “Iperborea” che sarebbe sorta ai confini del mondo, nelle lontane terre del Polo Nord.
Questa terra era abitata da una popolazione di grandi navigatori caratterizzati dall’alta statura, con spiccate doti scientifiche ed astronomiche e con una potente abilità in campo edilizio.
A seguito di una forte glaciazione, avvenuta in un periodo non meglio precisato, la sua popolazione avrebbe deciso di spostarsi più a sud.
Nel 1679 l’autore svedese Olaf Rudbeck identificò gli abitanti di Atlantide (di cui aveva parlato il già citato filosofo greco Platone) con gli abitanti di Iperborea, e collocò la posizione di questa antichissima civiltà al Polo Nord.
Nella mitologia greca gli iperborei sono citati come coloro che vissero “al di là del vento del nord”.
I greci pensavano che Borea, il “dio del vento del Nord” appunto, risiedesse in Tracia, e quindi “Iperborea” indica una regione che si trovava molto più a nord della Tracia (l’attuale zona europea dello stretto del Bosforo che si trova tra la penisola balcanica e la Turchia).
Riguardo ai contatti avuti tra i greci e gli Iperborei, il già citato Erodoto di Alicarnasso, conosciuto come “il “padre della storia”, scrive:
“A parlare degli Iperborei è stato Esiodo, anche Omero negli ‘Epigoni’, sempre che questo poema sia di Omero”.
Erodoto con questa affermazione fa intendere che la leggenda sull’esistenza di questa mitica terra fosse in realtà molto più antica della registrazione fatta dalla storiografia classica, importata in Grecia con l’arrivo dei Dori, che erano una popolazione le cui origini sono ancor oggi materia di dibattito per gli studiosi.
Erodoto riporta nel libro IV (33-35) delle sue “Storie” dell’esistenza di uno stretto legame religioso tra il culto del dio Apollo portato avanti dagli antichi abitanti della città di Delo e quello fatto dagli Iperborei.
“Ma più di tutti ne parlano (degli Iperborei) i Delii, affermando che offerte avvolte in paglia di grano provenienti dagli Iperborei giungono in Scizia e che dagli Sciti in poi i popoli vicini, ricevendone uno dopo l’altro, le portano verso occidente assai lontano, fino all’Adriatico, e di là, mandate innanzi verso sud, primi fra i Greci le ricevono i Dodonei, e da questi scendono al golfo Maliaco e passano in Eubea, e una città le manda all’altra sino a Caristo, e dopo Caristo viene lasciata da parte Andro, perché sono i Caristi quelli che la portano a Teno, e i Teni a Delo.
Dicono dunque che in tal guisa queste sacre offerte giungono a Delo, e che la prima volta gli Iperborei mandarono a portare le offerte due fanciulle, che i Delii dicono si chiamassero Iperoche e Laodice e che insieme a queste per ragioni di sicurezza gli Iperborei mandarono anche come scorta cinque cittadini, quelli che ora sono chiamati Perferei e godono in Delo di grandi onori. Ma, poiché gli inviati non tornavano, gli Iperborei – ritenendo cosa assai grave se fosse sempre dovuto accadere che inviando dei delegati non li riavessero più indietro – allora, portando ai confini le offerte sacre avvolte in paglia di grano, le affidarono ai vicini raccomandando loro di mandarli innanzi dal proprio a un altro popolo. Raccontano che queste offerte giungano a Delo mandate innanzi in tal modo, e io stesso so che si pratica un rito simile a questo che ora esporrò: le donne tracie e peonie, quando sacrificano ad Artemide regina, offrono un sacrificio usando paglia di grano. Dunque so che fanno così, mentre in onore delle fanciulle venute dagli Iperborei e morte a Delo, le giovani e i giovani delii si recidono le chiome. Le une, tagliandosi prima delle nozze un ricciolo e avvoltolo intorno a un fuso, lo depongono sulla tomba – la tomba è sulla sinistra per chi entri nell’Artemisio, e le sorge accanto un olivo – mentre tutti i ragazzi delii, avvolta una ciocca di capelli attorno ad uno stelo verde, la depongono anch’essi sul tumulo. Esse quindi ricevono tali onori dagli abitanti di Delo. I Delii stessi poi raccontano che anche Arge e Opi, vergini iperboree, sarebbero giunte a Delo ancora, prima che Iperoche e Laodice, facendo lo stesso viaggio. Ma aggiungono che queste ultime sarebbero venute per portare ad Ilizia il tributo che gli Iperborei si erano imposti in compenso del rapido parto, e che Arge e Opi invece vennero insieme alle divinità stesse; e che a queste vengono resi onori diversi; per loro le donne raccolgono offerte, invocandone i nomi nell’inno composto da Olen, poeta di Licia, ed avendoli appresi da esse gli isolani e gli Ioni invocano nei loro inni Opi e Arge chiamandole a nome e raccogliendo offerte – questo Olen venuto dalla Licia compose gli altri antichi inni che si cantano a Delo – e usano la cenere delle cosce bruciate sull’altare gettandola sulla tomba di Opi e Arge.
La loro tomba è dietro l’Artemisio, rivolta verso oriente, vicinissima alla sala da banchetto dei Cei”.
Anche il filologo Erich Jung scrisse a proposito: “un’antichissima saga dei Dori che conservava la memoria delle origini nordeuropee e delle migrazioni dello strato sociale dominante dei Dori nell’Ellade”.
Questa terra è stata descritta come perfetta, con il Sole che splende 24 ore al giorno, il che suggerisce una posizione geografica all’interno del cosiddetto Circolo Polare Artico.
Il poeta greco classico Pindaro ebbe a dire su questa misteriosa e mitologica terra: “Mai la Musa è assente dalle sue vie: lire scontrano e flauti piangono e cori ovunque nubile vorticoso né malattia né amara vecchiaia si mescolano nel loro sangue sacro; lontano dal lavoro e dalle battaglie in cui vivono…”.
Insieme a Thule, Iperborea è stata una delle terre perdute citate più volte anticamente da greci e romani, dove Plinio, Pindaro e Erodoto, così come Virgilio e Cicerone, riferirono che la gente vi viveva fino all’età di mille anni godendosi la vita in perenne contatto con la natura e con l’ambiente circostante.
Ecateo di Abdera raccolse in fascicoli tutte le antiche cronache riguardo agli Iperborei, e pubblicò un lungo trattato su di loro nel 4° secolo a.C.. Purtroppo questo non è arrivato ai nostri giorni, ma fortunatamente ne parlò Diodoro Siculo nella sua “Biblioteca Storica”, libro II, 47:
“Dal momento che abbiamo riservato una descrizione alle parti dell’Asia rivolte a nord, crediamo che non sia fuori luogo trattare le storie che si raccontano a proposito degli Iperborei. In effetti, tra coloro che hanno registrato gli antichi miti, Ecateo e alcuni altri affermano che nelle regioni poste al di là del paese dei Celti c’è un’isola non più piccola della Sicilia; essa si troverebbe sotto le Orse e sarebbe abitata dagli Iperborei, così detti perché‚ si trovano al di là del vento di Borea. Quest’isola sarebbe fertile e produrrebbe ogni tipo di frutto; inoltre avrebbe un clima eccezionalmente temperato, cosicché‚ produrrebbe due raccolti all’anno. Raccontano che in essa sia nata Leto: e per questo Apollo vi sarebbe onorato più degli altri dei; i suoi abitanti sarebbero anzi un po’ come dei sacerdoti di Apollo, poiché‚ a questo dio si inneggia da parte loro ogni giorno con canti continui e gli si tributano onori eccezionali. Sull’isola ci sarebbe poi uno splendido recinto di Apollo, e un grande tempio adorno di molte offerte, di forma sferica. Inoltre, ci sarebbe anche una città sacra a questo dio, e dei suoi abitanti la maggior parte sarebbe costituita da suonatori di cetra, che accompagnandosi con la cetra canterebbero nel tempio inni al dio, celebrandone le gesta. Gli Iperborei avrebbero una loro lingua peculiare, e sarebbero in grande familiarità con i Greci, soprattutto con gli Ateniesi e i Delii: avrebbero ereditato questa tradizione di benevolenza dai tempi antichi. Raccontano poi anche che alcuni Greci siano giunti presso gli Iperborei, e vi abbiano lasciato splendide offerte con iscrizioni in caratteri greci. Allo stesso modo anche Abari sarebbe anticamente venuto dagli Iperborei in Grecia, rinnovando la benevolenza e le relazioni con i Delii. Dicono poi che da quest’isola la luna appaia a pochissima distanza dalla terra, e con alcuni rilievi quali quelli della terra chiaramente visibili su di essa. Si dice inoltre che il dio venga nell’isola ogni diciannove anni, periodo in cui giungono a compimento le rivoluzioni degli astri – e per questo motivo il periodo di diciannove anni viene chiamato dagli Elleni “anno di Metone”. In questa sua apparizione, il dio suonerebbe la cetra e danzerebbe di continuo ogni notte dall’equinozio di primavera fino al sorgere delle Pleiadi, compiacendosi dei propri successi. Regnerebbero sulla città e governerebbero il recinto sacro i cosiddetti Boreadi, discendenti di Borea, e si trasmetterebbero di volta in volta le cariche per discendenza”.
Ecateo di Abdera scrisse anche che gli Iperborei costruirono un “tempio circolare” sulla loro isola, e questo portò alcuni studiosi ad identificarlo con il famoso sito megalitico di Stonehenge.
Lo storico Tolomeo, e Marciano di Eraclea collocarono la mitica Iperborea nel Mare del Nord, che denominarono “L’oceano di Iperborea”. Inoltre, si dice che il sole saliva e si stabiliva soltanto una volta all’anno nella terra di Iperborea; che si sarebbe posizionato sopra o sul circolo polare, o più in generale nelle regioni polari artiche.
Unico tra gli dei dell’Olimpo, Apollo era venerato tra gli iperborei, gli Elleni credevano che egli trascorresse gli inverni in mezzo a loro.
L’antico scrittore greco Teopompo nel suo lavoro “Philippica” riporta che la terra di Iperborea fu assaltata per essere conquistata da un grande esercito di soldati arrivati da un’altra isola (alcuni ricercatori sostengono che questa era proprio l’isola di Atlantide).
Il piano si dice che fu però abbandonato poiché i soldati invasori si resero conto che gli Iperborei erano troppo forti per loro. Questo particolare racconto – che alcuni credono sia solo un semplice mito – è stato riportato dal romano Claudio Eliano, filosofo e scrittore di lingua greca (nella Varia Historia).
Una leggenda greca afferma inoltre che i Boréades, che erano i figli discendenti del dio Borea e della ninfa della neve Chione (o Khione), fondarono la prima monarchia teocratica sull’isola. Questa leggenda si trova conservata negli scritti di Eliano: “Questo dio [Apollo] ha come sacerdoti, i figli di Borea (Il vento del nord) e Chione (neve), alti sei cubiti [circa 3 metri]”.
I Boréades che erano i re che governavano l’isola di Iperborea, erano quindi dei giganti di oltre tre metri di altezza.
Il grammatico greco antico Aelius Herodianus (Elio Erodiano) di Alessandria d’Egitto, nel 3 ° secolo scrisse che la leggendaria popolazione degli Arimaspi erano identici agli Iperborei riguardo l’aspetto fisico (De Prosodia Catholica, 1. 114) e Stefano di Bisanzio nel 6 ° secolo scrisse lo stesso (Ethnica, 118. 16).
L’antico poeta e filologo ellenico Callimaco descrisse gli Arimaspi come un popolo dall’alta statura, dalla pelle chiara e dai capelli biondi.
Gli europei del Nord (scandinavi), quando si confrontarono con la cultura greco-romana classica del Mediterraneo, furono subito identificati con gli iperborei.
Questo particolare non è da sottovalutare, visto che gli europei del nord, in modo particolare gli irlandesi, dicevano di essere i discendenti dei leggendari popoli di eroi, i grandi navigatori del mare dei “Tuatha Dé Danann”.
Che la genesi di questi eroi mitologici sia da ricercare proprio tra gli iperborei?
LA STORIA DI OLAF JANSEN
Olaf Jansen, nacque nel 1811 e all’età di diciannove anni decise di intraprendere un lungo viaggio di pesca insieme al padre tra l’aprile e il giugno del 1829.
I due si misero in viaggio, e fu dopo aver raggiunto la “Terra di Francesco Giuseppe” da Stoccolma che i due decisero di avventurarsi ancora più a nord, dove credevano che avrebbero trovato una terra chiamata “La Terra Scelta”.
Dopo che riuscirono a scampare ad una violenta tempesta e a pericolosissimi iceberg, navigarono senza problemi per undici giorni, sempre in quella che sembrava loro essere una direzione verso nord. Pochi giorni dopo raggiunsero le rive di un grande fiume che li introdusse ulteriormente nella navigazione per altri dieci giorni, intorno ai primi di settembre.
Essi approdarono infine su una vasta spiaggia, dopo di che furono accolti da sei uomini giganteschi, dell’altezza di circa quattro metri, con cui strinsero amicizia.
Questa terra secondo il racconto era illuminata da un “fumoso” sole centrale ed era composta da una fitta rete di colonie abitate da uomini circa 4 metri.
La capitale di questo regno si chiamava “Kalapa”, considerata anche come l’originario Giardino dell’Eden.
Secondo il padre di Olaf, questa popolazione viveva in grandi e bellissime case ornate di oro, che a suo dire era un metallo molto comune in quei luoghi. La principale occupazione era l’agricoltura; essi avevano vigneti e coltivavano ogni tipo di grano.
Il terreno era fertile e rigoglioso, e regalava in abbondanza frutta e verdura, squisitamente deliziose.
Vi vivevano anche specie di animali che Olaf e il padre non avevano mai visto prima di allora, come i Mammut, i famosi proboscidati estinti da tempo immemore nelle altre zone del mondo.
Gli alberi, le foreste e i già citati animali erano anch’essi enormi e l’aria era pura e tonificante.
Olaf, che visse in questa terra per alcuni anni, quando ritornò in superficie raccontò le sue incredibili avventure ma, tuttavia, non fu creduto, anzi fu ritenuto folle e rinchiuso in manicomio per quasi trent’anni.
Molti anni dopo lo scrittore Willis George Emerson avrebbe incontrato il vecchio Jensen e avrebbe raccolto le sue memorie, che poi furono pubblicate nel libro “Il Dio fumoso” del 1908.
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Il matematico e saggista John G. Bennett scrisse un particolarissimo documento di ricerca dal titolo “L’iperboreo – l’origine della cultura indo-europea” in cui sosteneva che la patria originaria indoeuropea era sorta nel lontano nord, quella che nell’antichità classica veniva chiamata appunto l’”Iperborea”.
Questa stessa tesi è stata precedentemente proposta da Bal Gangadhar Tilak nel suo “The Arctic Home in the Vedas” (1903), così come dall’etnologo austroungarico Karl Penka in “Le origini degli Ariani” scritto nel 1883.
Anche H. P. Blavatsky, René Guénon e Julius Evola condividevano una forte fede nell’esistenza di Iperborea, e sostenevano che il genere umano avesse avuto origine proprio nei circoli polari, che successivamente, in seguito ad un disastro, i popoli che vi vivevano abbandonarono per dirigersi in altri luoghi.
Iperborea era la terra dove ebbe inizio “L’età dell’oro” della civiltà umana e della spiritualità, dove la primordiale umanità non sorse affatto dalla scimmia (come sostenuto nei miti creati a tavolino dagli illuministi nel lontano Settecento) ma al contrario ricadde progressivamente in quella condizione quando si allontanò fisicamente e spiritualmente dalla sua terra d’origine.
Julius Evola, in particolar modo, rintracciò nelle particolari popolazioni dal cranio dolicocefalo, cioè allungato, unito ad una slanciata figura, al colorito biondo dei capelli, al colorito chiaro della pelle e agli occhi azzurri, le caratteristiche degli ultimi discendenti delle razze nordiche direttamente calate dalle regioni artiche.
Molti di questi fenotipi ad esempio furono rinvenuti nel sud e centro America, dove erano caratteristici soprattutto dalle caste sacerdotali che, leggenda vuole, furono tramandati dal mitico navigatore venuto dal mare “Con Tiqui Viracocha”, un eroe dalla pelle chiara e dagli occhi azzurri, alto di statura e con capigliatura e barba bionde, arrivato sulle Ande in un’epoca di tenebra successiva ad un grande cataclisma a bordo di una nave “senza remi” a civilizzare il continente sudamericano.
È possibile che questo enigmatico Viracocha sia proprio uno degli Iperborei, arrivato nel continente americano in tempi antichi per civilizzarlo?
Robert Charroux infine identificò gli Iperborei con una razza di antichi astronauti “reputati molto grandi e dalla pelle chiarissima che avevano scelto la zona meno calda sulla Terra perché corrispondeva più strettamente al clima che c’era sul loro pianeta d’origine“.
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Dunque questa storia ci tramanda la “leggenda” dell’esistenza di una terra mitica, collocata nell’attuale Circolo Polare Artico, nella quale avrebbero vissuto popolazioni speciali per altezza, longevità, conoscenze, ambiente salubre e vita serena condotta in armonia con la natura.
Sembra, detto così, che si tratti appunto di una leggenda, cioè di una storia fantastica o romanzata, ammesso dunque che i racconti di Olaf fossero falsi. Quindi anche tutti gli altri racconti che ne riportano l’esistenza dovrebbero essere necessariamente falsi, compreso il famoso racconto del capitano Byrd, che negli anni 1930-50 intraprese diverse spedizioni per conto del governo statunitense nel due “poli”, e che raccontò di essere stato “scortato” da avioggetti sconosciuti che lo costrinsero ad atterrare in una terra ignota, nella quale ebbe un incontro e un dialogo con il “capo” di quest’isola, che gli diede precise istruzioni – e comunicò nella fattispecie le preoccupazioni sue e della sua gente per l’”andazzo” che stavano prendendo i rapporti tra i vari popoli della Terra agli albori dell’epoca atomica, preoccupazioni che, ovviamente, furono del tutto ignorate -.
Che questa storia sia vera, e che Iperborea sia esistita in passato per poi la sua popolazione spostarsi su altre terre, non lo sappiamo con certezza, e allo stato attuale delle conoscenze diffuse sappiamo che al Polo Nord, come al Polo Sud, ci sarebbero solo ghiacci.
Se questa storia è “vera”, cioè se Iperborea sia realmente esistita, lo sanno solo i governi o quegli esploratori e studiosi a cui è stato concesso di avventurarsi in quelle zone o magari intraprendere avvincenti incontri. Ai posteri l’ardua sentenza.
Fonte: L’IMMAGINE PERDUTA
