di Flavio Piero Cuniberto
Quello che l’antico lessico morale ha chiamato a lungo «peccato» – e che oggi sopravvive perlopiù come un fossile linguistico o come «violazione dei diritti umani e ambientali» – è una deviazione da un ordine morale che è però, in profondità, un ordine metafisico. Il «peccato» devia dalla «via» (in ebraico: derekh), che è il ritmo stesso dell’essere, o sempre con riferimento alle Scritture ebraiche, quel «camminare» di Dio di cui i santi mantengono il ritmo («ambulare cum Deo»).
Ma deviare dal ritmo dell’essere non è (non dovrebbe essere) possibile, o meglio lo è solo in apparenza, perché la deviazione è non-essere. E infatti la semantica antica del «peccato» (quella ebraica, in parte quella greca) lo associa alla «vanitas» (awen), all’errore o all’illusione, a ciò che essenzialmente non è ma appare, e apparendo seduce (la seduzione del peccato sta nel misterioso potere attrattivo o di «risucchio» che è la proprietà del Nulla).
E’ per questo che la morale cristiana classica attribuisce un’importanza fondamentale al pentimento inteso come «contrizione»: come atto che consuma e distrugge, sacrificandola, l’apparenza del peccato, o il peccato-come-apparenza – perché è sì apparenza, ma un’apparenza vischiosa che va distrutta – restituendola al suo non-essere (il «sacrificium cordis» dei Salmi; «cor contritum et humiliatum deus non despicies» [Ps 51]).
Questa dolorosa consumazione sacrificale ha un effetto corroborante: rafforza lo slancio della via, come se il peccato-apparenza consumato-distrutto fungesse da «carburante» per l’ascesa (la Via è ascendente). Di qui la festa che accompagna il ritorno del figlio dissipato nella famosa parabola (che diventando la parabola del «figliol prodigo» si affloscia in una caramellosa retorica da sacrestia).
E’ così che la tradizione cristiana ed ebraico-cristiana pensa e pratica la «potenza del negativo». O meglio: la hegeliana «potenza del negativo» non fa che tradurre in termini logico-dialettici – di fatto una «teologia [theo-sophia] mascherata» – il movimento che va dalla «via» (tesi) alla sua deviazione apparente (antitesi), al ritorno potenziato sulla via (sintesi; la triade innocenza-peccato-virtù è pura teologia morale radicata nella metafisica).
Aggiornando il vecchio lessico sacramentale della «penitenza» e della «contrizione» per sostituirlo con quello, ritenuto più moderno e perciò più vacuo, della «riconciliazione», la Chiesa post-conciliare non dà solo uno spettacolo di ipocrisia (non volendo chiamare le cose col loro nome, perché la penitenza è dolorosa), ma dimostra di non comprendere più il significato metafisico della dottrina. La «rinconciliazione» è la versione umanitaria, dolciastra e borghese, del «pentimento» come atto sacrificale. Sembra sorridere, invece è l’Età Oscura.
