Prima Guerra Economica Mondiale

di Jacopo Cioni

Sino al 1915 le guerre si chiamavano semplicemente Guerra del…, Guerra dei…, dopo il 1915 venne introdotto il suffisso Mondiale a caratterizzare una guerra che coinvolgeva molti paesi di svariati continenti. Grande Guerra o Guerra Mondiale; il “prima” fu introdotto in seguito, quando alla prima seguì una seconda.

Tutti quindi si aspettano una Terza Guerra Mondiale, scongiurata già una volta durante la Guerra Fredda. Un rischio sfiorato con conseguente estinzione nucleare, ma mantenuto sempre dietro l’angolo pronto alla bisogna.

Eppure, nonostante la maggioranza delle persone non se ne sia accorta, in questo momento siamo in guerra. Ovvio che le persone non si accorgono del conflitto in atto, non sentono colpi di cannone, non vedono sfilate militari in assetto da guerra, nessun media parla di combattimenti o invasioni.

Eppure siamo in guerra, una guerra che ha cambiato i suoi paradigmi di ingaggio. Se un tempo a fronteggiarsi erano delle Nazioni, oggi quelle Nazioni sono solo luoghi dove muovere le nuove armi impiegate. Non più supersonici aerei ma addestrati finanzieri e corrotti, o ancora più facile, stupidi politici.

La globalizzazione ha cambiato anche il modo di conquistare territori e potere, la conquista è sovranazionale e il potere accentrato nelle mani dei capitali mondialisti.

Eppure si generano danni alla stessa maniera. Non vediamo città distrutte (distrutte no, ma malridotte si), ma paesi che svendono i propri colossi economici al grido di “privatizzazione”, oppure paesi che stritolati dalla crisi economica svendono isole , aeroporti, porti e anche “Partenoni” se necessita.

Il popolo subisce come in guerra, la quantità di popolazione che si colloca sotto la soglia di povertà aumenta in maniera costante e lineare, le persone si vendono la seconda casa, qualcuno anche la prima. Il lavoro è scarso e si registra una costante disoccupazione al 13%, ma nessuno si guarda bene dal parlare anche della sottoccupazione.

Insomma siamo al sistema guerra 2.0, niente armi, ma mercato e finanza che controllano il mondo globalizzato, prima assorbendo le aziende maggiori, poi le medie e quindi, senza sforzo, annullando economicamente le piccole. Aziendalizzazione anche del lavoro “borghese” rendendolo imprenditoriale e competitivo verso i singoli. Si aiutano anche con le armi biologiche?

Infine privatizzare anche strutture statali rese talmente inefficienti da bramare la privatizzazione per un salvataggio. Sanità, scuola, giustizia. A quel punto lo Stato per come lo intendiamo cessa di esistere e quindi si annullerà di conseguenza i Parlamenti e i Senati, che poi ci stanno già provando da un pezzo se ci penate bene.

Una guerra che, come la prima grande guerra, sarà ricordata come la Prima Guerra Economica Mondiale.

La domanda che ci poniamo è: “Chi sono i Partigiani in questa nuova forma di guerra?”

Liberamente tratto da: Scenarieconomici.it

Prima guerra economica?

Pentagono: l’aeronautica cinese “sta rapidamente raggiungendo” le forze aeree occidentali

Alla fine di luglio, il presidente cinese Xi Jinping ha sottolineato l’importanza dello sviluppo delle capacità militari dell’aviazione militare nazionale.

L’Aviazione dell’Esercito Popolare di Liberazione Cinese rimane “la più grande forza aerea della regione” e la terza più grande al mondo, ha rivelato il Pentagono in un rapporto recentemente pubblicato sulla potenza militare cinese.

“L’aviazione militare cinese sta rapidamente raggiungendo le forze aeree occidentali attraverso una vasta gamma di capacità e competenze”, afferma il rapporto, riferendosi ai “2.500 aerei totali e circa 2.000” aerei da combattimento dell’aeronautica cinese.
In questo senso il report ha anche individuato i presunti sforzi della Cina per espandere la sua influenza militare in tutta l’Asia orientale e nel mondo con l’aiuto della sua marina, che secondo il rapporto è ora “la più grande del mondo, con una forza militare complessiva di circa 350 navi e sottomarini inclusi oltre 130 navi da guerra”.

Il rapporto descrive l’Esercito Popolare di Liberazione come la più grande forza di terra permanente del mondo, che “ha continuato a svilupparsi in una forza di terra moderna, mobile e letale” lo scorso anno.
Secondo il documento, il 2019 ha visto l’esercito cinese “mettere in campo sistemi di combattimento aggiornati e apparecchiature di comunicazione e migliorare la sua capacità di condurre e gestire complesse operazioni combinate e operazioni congiunte”.

Riferendosi al rapporto China Military Power 2020 del Pentagono, Kris Osborn, direttore della difesa della rivista The National Interest, ha osservato in un articolo pubblicato domenica da Fox News che gli Stati Uniti non sono solo preoccupati per le dimensioni dell’aviazione militare cinese, ma dalla “sofisticatezza e dalle tattiche multifunzionali con cui opera”.
Ha ricordato che “come parte della sua discussione sulla potenza aerea cinese”, il rapporto menzionava l’esercito cinese che utilizzava sofisticati sistemi di difesa aerea S-400 di costruzione russa.

Il presidente cinese ha esortato le forze aeree a rafforzare la capacità di guerra con i droni
I commenti sono arrivati ​​dopo che il presidente cinese Xi Jinping ha sottolineato l’importanza di sviluppare veicoli aerei senza pilota per l’aviazione militare cinese, sottolineando che quest’ultima “già possiede aerei avanzati e armi di difesa aerea”.

“I droni stanno cambiando profondamente gli scenari di guerra. È necessario rafforzare la ricerca, l’istruzione e l’addestramento sul combattimento con i droni e accelerare l’addestramento dei piloti e dei comandanti di droni”, ha detto Xi agli studenti dell’università di aeronautica militare di Changchun, nella provincia di Jilin.
Questo è seguito alla pubblicazione del rapporto annuale sulla potenza militare cinese da parte della US Defense Intelligence Agency nel 2019, rivelando che l’esercito popolare cinese “sta sviluppando nuovi bombardieri stealth a medio e lungo raggio” in grado di colpire “obiettivi regionali e globali”.

Il documento aggiungeva che i continui sforzi di Pechino per modernizzare la sua marina stavano “colmando il divario con le forze aeree occidentali attraverso un ampio spettro di capacità, come le prestazioni degli aerei, […] e la guerra elettronica”.

Liberamente tratto da: Sputniknews.com

Aeronautica Cinese

L’Iran tra nazionalismo persiano e khomeinismo

di EMANUEL PIETROBON

L’Iran è la culla di una delle più antiche e culturalmente importanti civiltà che siano mai esistite: quella persiana. Le origini del popolo iraniano, formatosi nell’alveo del perduto universo degli indoeuropei, risalgono alla notte dei tempi e l’impero, se si considerano le fasi evolutive, il paragrafo macedone ed ellenistico e l’alternanza delle dinastie come un ciclo unico, è stato il più longevo al mondo, essendo durato dal 550 avanti Cristo al 1979.

I persiani, che secondo gli antichi greci erano gli eredi di Perse, il figlio del semidio Perseo, all’apice delle conquiste hanno controllato gran parte del mondo conosciuto dell’antichità: l’Anatolia, la Mesopotamia, parte dell’Asia centrale, parte della valle dell’Indo, parte della Grecia, il Caucaso e parte dell’Egitto.

L’Iran, crocevia degli equilibri internazionali

Nell’immaginario collettivo dell’antichità, la Persia era una delle culle della conoscenza primordiale  (ex Oriente lux) ed era anche identificata con il pericolo, essendo il luogo dal quale era provenuta la maggior parte delle minacce affrontate dalle civiltà del mar Mediterraneo. Come le guerre fra la cristianità europea e l’impero ottomano hanno plasmato il mondo moderno, quelle fra le città-stato greche e i re persiani hanno plasmato il mondo antico. Oggi come nei secoli ante-Cristo è sempre l’Iran uno dei punti caldi delle relazioni internazionali, un luogo di incontro e scontro fra civiltà e visioni del mondo: una remota ed ancestrale, quella persiana, ed una moderna e fittizia, quella occidentale.

Eppure, è proprio a quest’ultima che i condottieri persiani hanno guardato nelle ultime fasi di vita del decadente impero per ridargli vigore, per portarlo a nuova vita. I tentativi di occidentalizzare l’Iran, che è stato uno degli storici antagonisti e rivali delle civiltà euromediterranee, hanno trovato un ostacolo insormontabile nella dura legge della storia, finendo in maniera drammatica nel 1979, l’anno della rivoluzione khomeinista.

L’Iran e l’Occidente dallo shah alla Rivoluzione

Un interessante approfondimento a cura di Carol Giacomo, pubblicato recentemente per il The New York Times, dal titolo “Iran and the United States: Doomed to Be Forever Enemies?”, è una lettura obbligatoria per chiunque sia intenzionato a rileggere le relazioni fra Occidente e Iran in maniera alternativa, in controtendenza a quanto propinato dalla letteratura tradizionale, secondo una chiave di lettura più geofilosofica che politica.

La dinastia Pahlavi non è riuscita nell’intento di occidentalizzare l’Iran perché esso è l’antitesi dell’Occidente: culla della “tradizione”, come la chiamerebbero i pensatori della scuola guenoniana, sarà sempre il cuore pulsante dell’antimodernità. Nel 1979 il popolo si riappropriò del suo destino, rovesciando la situazione di decadenza geopolitica e di smarrimento culturale venutasi a creare con l’inizio del Grande Gioco fra britannici e russi.

Grande Gioco è il termine utilizzato dagli storici per descrivere un periodo di competizione antagonistica fra l’impero britannico e quello russo che ha caratterizzato tre quarti del 19esimo secolo. Ieri come oggi, i britannici lottavano affinché la Persia non cadesse nella sfera d’influenza russa – poiché ritenuta la porta d’accesso all’India – mentre gli zar combattevano per ridurre l’influenza di Londra nel turbolento e sempre in fermento mondo islamico centro-asiatico – strumentalizzabile per inscenare moti antirussi all’interno del vasto impero. Ieri i britannici, oggi gli statunitensi, cambiano gli attori ma gli obiettivi sono sempre gli stessi, ed immutata è la rilevanza geostrategica dell’Iran, al cui destino è interessato tanto l’Occidente che l’Oriente a trazione sino-russa.

Il tentativo di occidentalizzare l’antica Persia iniziò nel primo dopoguerra, quando i britannici sostituirono la declinante dinastia Qajar con i Pahlavi, approfittando dell’isolamento antagonistico inaugurato dall’Unione Sovietica all’indomani della rivoluzione bolscevica. I Pahlavi furono scelti in virtù di una peculiarità: l’apparente fedeltà a Londra e il disinteresse verso il loro mondo di appartenenza, intuibile dallo stile di vita sfarzoso e dalla passione per tutto ciò che europeo.

Reza Shah fu nominato a capo della dinastia che avrebbe governato il Paese fino al 1979, ma manifestò segni di insofferenza molto presto, già negli anni ’30. Nel 1932 cancellò la concessione petrolifera all’Anglo-Persian Oil Company con l’obiettivo di ritrattare la divisione degli introiti a favore di Teheran, in seguito privò il diritto di stampare moneta dalla Banca Imperiale Britannica alla Banca Nazionale dell’Iran, promulgando delle leggi di de-stranierizzazione dei settori strategici e palesando la fine del programma di occidentalizzazione culturale nel 1935, quando cambiò il nome del Paese da Persia a Iran.

La virata improvvisa spinse Londra a intervenire militarmente nell’agosto 1941, in coordinamento con Mosca, per deporre lo scomodo Shah e sostituirlo con suo figlio, Mohammad. Anch’egli, come il padre, inizialmente rispettò gli accordi presi con la corona britannica, salvo poi iniziare un percorso di autonomia politica e culturale. Quel percorso nel 1951 portò all’elezione alla presidenza del consiglio dei ministri di un nazionalista convinto, appassionato e zelante: Mohammad Mosaddeq, la personificazione del sentimento antibritannico diffuso nel Paese.

Mosaddeq sfruttò sapientemente l’astro positivo esercitato sullo Shah per convincerlo a nazionalizzare l’industria petrolifera, l’unico modo per emancipare il Paese dal giogo britannico, senza sapere che ciò avrebbe scatenato l’intervento degli Stati Uniti, emersi come prima potenza occidentale nel secondo dopoguerra.

Nel 1953, CIA e MI6 diedero vita all’operazione Ajax, una guerra coperta avente come obiettivo un colpo di Stato ai danni di Mossadeq per mezzo della propagazione di violenze e sabotaggi. Lo Shah fu obbligato a destituire il primo ministro – condannato al confino perpetuo – acconsentendo all’esecuzione di personaggi-chiave del governo, come il ministro degli esteri Hossein Fatemi, ottenendo in cambio la permanenza al potere – ma non avrebbe più dovuto commettere errori, gettando nel dimenticatoio ogni progetto di rinascita nazionale dalle venature antioccidentali.

Nel dopo-Ajax lo Shah riprese con vigore la campagna di occidentalizzazione culturale, ribattezzata la rivoluzione bianca”, trasformandola in un progetto imposto dall’alto e con la forza, inimicandosi soprattutto il clero sciita, l’istituzione sociale più prestigiosa e popolare sin dai tempi della conversione all’islam del popolo iraniano, impegnata tanto nell’aiuto ai poveri che nel custodire la memoria nazionale.

Lo Shah, totalmente astruso dalla realtà e fermamente convinto di godere dell’appoggio popolare, iniziò a considerare le proteste anti-riformiste come un tentativo insurrezionale partorito dal clero, ignorando la possibilità di una loro effettiva impopolarità data dal radicamento di una visione profondamente conservatrice nella società. La polizia segreta, la Savak, fu adibita al compito di stanare, incarcerare e far sparire i capi delle rivolte, esacerbando ulteriormente il clima di scontro.

Sullo sfondo della repressione interna, lo Shah tentò simultaneamente di riappropriarsi della politica estera, seppure più debolmente rispetto agli anni di Mossadeq, ottenendo l’effetto di alienarsi il consenso degli alleati occidentali.

Pur continuando formalmente a sostenere la dottrina dei due pilastri di Washington – Teheran e Riad quali baluardi dell’interesse a stelle e strisce nel Medio Oriente – lo Shah allacciò legami con la Libia di Muammar Gheddafi, supportando i paesi OPEC nel corso della crisi petrolifera del 1973 e allontanandosi da Israele, accusato di esercitare un’influenza perniciosa per mezzo dei propri lobbisti alla Casa Bianca.

La rivoluzione e i suoi effetti

L’apogeo di questa piccola primavera nazionalista è rappresentato dalla firma degli accordi di Algiers con l’Iraq di Saddam Hussein, siglati con l’obiettivo di porre fine ad ogni disputa territoriale con Baghdad e anticamera di un possibile sodalizio in chiave antiamericana e anti-israeliana. Grazie agli accordi, a Washington e Tel Aviv fu impedito di sostenere ulteriormente l’insurrezione curda in Iraq.

Fu anche per via dell’ostilità crescente provata dagli alleati dell’Iran a causa delle politiche in campo estero dello Shah che nessun aiuto fu fornito nel contenimento delle proteste, in parte anche sobillate dall’Unione Sovietica – perché si cita spesso la rivoluzione del 1979 come un trionfo dei rivoluzionari religiosi, ma si dimentica che a protestare nelle piazze contro il riformismo all’occidentale dell’imperatore ci furono molti giovani laici, semplicemente patriottici, e comunisti, rispondenti al Cremlino. In breve, a manifestare contro l’annullamento dell’identità iraniana non era soltanto il clero, ma la maggior parte della nazione.

Intimorito dallo spettro di una guerra civile, nel 1979 lo Shah riparò all’estero, trovando rifugio  nell’Egitto dell’amico Anwar Sadat, rendendo possibile il ritorno in patria di Ruhollah Khomeini, il leader morale della rivoluzione.

Il primo aprile, il popolo iraniano fu chiamato alle urne per decidere il destino del Paese: votando all’unanimità per l’adozione di una nuova costituzione funzionale alla nascita di un nuovo ordine incardinato su una repubblica di stampo islamico. Sono passati 41 anni dall’unica rivoluzione spirituale del Novecento e, nonostante il peso delle sanzioni, della guerra fredda con Israele e le petromonarchie della penisola arabica e dei tentativi di rivoluzione colorata periodicamente consumati,  l’ordine khomeinista è ancora in piedi e, pur ammettendo che non goda dello stesso sostegno del 1979, ciò è spiegabile in una maniera soltanto: si regge sul consenso di vasti settori della popolazione.

Quest’ultimo punto, ovvero il consenso genuino dei popoli a degli ordini ritenuti in errore a priori poiché non modellati secondo il criterio della democrazia liberale disegnata dagli illuministi europei, è la fonte principale di ogni problema che attanaglia gli analisti e i politici europei ed americani. Se non è democrazia liberale, non può essere; e chiunque la supporti è in malafede o indottrinato. Si tratta di un ragionamento illogico, tipico di studiosi occidentalo-centrici, e velatamente intriso di un senso di superiorità morale e disprezzo verso tutto ciò che non è Occidente.

È lo sbaglio mortale dal quale aveva messo in guardia il politologo Samuel Huntington, il teorico dello scontro di civiltà, la cui predizione si è rivelata fallace in diversi punti ma estremamente giusta e lungimirante in altri.

Prevedendo con largo anticipo il fenomeno Erdogan, considerando la Turchia destinata a vivere una rinascita neo-imperiale nel nuovo secolo, e sostenendo l’insostenibilità dell’universalismo occidentale imposto con la forza su popoli che occidentali non sono, Huntington ha illustrato alcune vie da seguire che, essendo state ignorate, si sono trasformate nella causa dei mali e dei conflitti che stanno caratterizzando il ventunesimo secolo.

L’occidentalizzazione può funzionare soltanto se a volerla e a chiederla è il popolo, perché la sua imposizione coercitiva non potrà che risultare controproducente nel lungo periodo.

Nel caso turco, abbiamo mostrato come le velleità antikemaliste – la variante occidentalista utilizzata per trasformare la Turchia ed inglobarla con un’operazione antistorica nell’orbita euroamericana – siano state presenti sin dal dopo-Ataturk.

Nel caso ungherese abbiamo mostrato come anche un popolo asiatico ma europeizzatosi nei secoli per via dell’acquisizione di una nuova casa, nel cuore del Vecchio Continente, abbia avviato un percorso di recupero identitario che, contrariamente alle aspettative, sta riscuotendo ampio successo e ha compiuto ormai un decennio.

Il caso iraniano è un’ulteriore dimostrazione del fatto che le identità non possono essere completamente annullate e che i popoli dotati di una coscienza storica forte hanno trovato nei miti fondativi, nel recupero dei sogni di grandezza e nell’adozione di valori conservatori dei validi strumenti con cui affrontare la forza socialmente disgregatrice e culturalmente massificatrice della globalizzazione.

Prima di Khomeini, a modo loro ci furono i Pahlavi – contradditori portatori di un sogno mescolante venerazione della civiltà persiana e della figura dell’imperatore – e quando l’ordine rivoluzionario cadrà – perché ogni egemonia affronta inevitabili cicli di ascesa e declino – un altro periodo di occidentalizzazione sopraggiungerà, ma sarà a sua volta destinato ad essere schiacciato dalla forza travolgente dello spirito dei figli di Perse.

Liberamente tratto da: Osservatorio Globalizzazione

IRAN OGGI

La Carta del Carnaro come sfida alla globalizzazione capitalista

di FRANCESCO MARRARA

L’8 settembre è un giorno nefasto in quanto simbolo di un avvenimento che ha segnato il destino della storia d’Italia. Riavvolgendo i nastri della storia tuttavia scopriremo che quest’anno, in occasione di questa fatidica giornata, ricorre il Centenario della Costituzione più bella del mondo. Ebbene sì, esattamente l’8 settembre di cento anni fa nella Città d’arte e di vita fu promulgata la Carta del Carnaro.

Breve cronistoria

Il 12 settembre 1919 D’Annunzio e i suoi legionari marciarono su Fiume. Il governo Nitti fu informato dell’azione tramite Il Giornale d’Italia tant’è che si pensò a un accordo segreto tra Nitti e D’Annunzio. Nitti, incaricò Badoglio di recarsi presso Fiume al fine di stabilizzare la situazione. Badoglio, in quanto amico del Vate, evitò che venissero a mancare ai fiumani i viveri e la minima assistenza. Nitti sancì il blocco totale degli aiuti e così Fiume, nel mese di marzo, sarebbe rimasta isolata. Fu a tal punto che D’Annunzio capì l’importanza di trasformare Fiume da stato di fatto a stato di diritto in maniera tale da poterne rivendicare la sovranità. Così, la sera del 30 agosto 1920 il poeta-soldato convocò la cittadinanza presso il teatro “Fenice” di Fiume. Con l’occasione venne letto lo Statuto sul quale sarebbe stato fondato il nuovo Stato. Nacque la Reggenza Italiana del Carnaro.

I postulati sociali

La Carta del Carnaro si presenta come un testo emblematico delle inquietudini sociali e politiche dell’Europa nell’immediato primo dopoguerra. Elaborata dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris e curata nello stile da Gabriele D’Annunzio la Carta, composta 65 articoli divisi in venti capitoli, stabiliva: un salario minimo; l’assistenza nell’infermità, nella disoccupazione, nella vecchiaia; il risarcimento del danno in caso di errore giudiziario o di abuso di potere; libertà di pensiero, di stampa, di associazione; libertà per ogni culto, purché non fosse usato come alibi per non compiere i doveri della cittadinanza; la proprietà privata era riconosciuta solo se fondata sul lavoro e purché improntata all’utilità sociale; il diritto di voto era garantito a tutti, sia uomini sia donne che avessero compiuto vent’anni; l’istruzione e l’educazione del popolo rappresentavano il dovere più alto della Repubblica. Questi, in sintesi, i postulati sociali della Costituzione fiumana.

Il filo rosso della rivoluzione sociale: dalla Repubblica Romana alla Costituzione Repubblicana

La Carta, fin dalle prime battute, risulta fortemente influenzata dalla Costituzione della Repubblica Romana (1849). I sindacalisti rivoluzionari, infatti, furono i maggiori seguaci di quel nazionalismo sociale che ebbe tra le proprie fila figure di spicco quali Mazzini, Garibaldi, Oriani e Pisacane. In tal senso, non dimentichiamo che alla stesura del programma di San Sepolcro contribuì proprio De Ambris. Invero, terminata l’esperienza fiumana, il fascismo mussoliniano farà propri alcuni dei principi della Costituzione fiumana riversandoli sia nella Carta del lavoro (1927) sia nella propria legislazione sociale la quale culminerà – in pieno periodo bellico – nel Decreto legislativo sulla socializzazione delle imprese del 12 febbraio 1944. Con la caduta del fascismo, la nuova Costituzione Repubblicana (1948) recepirà al Titolo III (artt. 35-47) molti di quei capisaldi che, nel corso di quegli anni, resteranno idealmente legati tra loro mediante il  filo rosso della rivoluzione sociale. Per questi motivi la Carta dannunziana si presenta sotto diversi profili quale anticipatrice di diverse istanze prese all’interno dell’Assemblea Costituente italiana, nonchè come documento di pregevole fattura dal punto di vista storico, politico e costituzionalistico.

Fiume rappresentò trincea e laboratorio metapolitico dal quale ancora oggi è possibile attingere. D’Annunzio e De Ambris, con la Carta del Carnaro, ebbero il merito di lanciare la nuova crociata “contro le nazioni usurpatrici e accumulatici d’ogni ricchezza” in nome di una visione realmente solidale e progressista. Ieri come oggi, la sfida alla globalizzazione capitalista passa anche dalla risoluzione della questione sociale. Identitari e sovranisti, pertanto, non possono far altro che raccogliere l’eredità centenaria della Costituzione del Carnaro la quale, fungendo da faro di una sana azione politica, indicherebbe la via maestra nell’affrontare le battaglie per i diritti sociali e per la sovranità dell’uomo “intiero”.

Liberamente tratto da: Adhocnews.it

La bandiera del Carnaro

IMPERO: L’unico oltrepassamento possibile nella decadenza dello Stato-Nazione inserito nel suo Sistema Internazionale. Un saggio di Ingegneria Politica.

Il titolo di questo brillante saggio breve è il frutto necessario di un travagliato periodo storico vissuto ancora oggi in prima persona da ciascuno nell’incertezza di una società liquida in balia delle onde del mare mentale. Rifacendosi all’inquadramento della radice di tutti i mali nell’attuale fase di metastasi del sistema internazionale, la forma dello Stato Nazione si presenta come problematica fin dalle radici medievali ponendosi in chiara antitesi alla Civiltà Imperiale. Il Nuovo Ordine Mondiale angloamericano non è altro che la sua speranza di sopravvivenza poiché nel sionismo l’unico cardine che si può ritrovare come sua antica paura è lo spettro del Sacro Ordine Imperiale in quella Vecchia Europa che corrisponde alla centralità geopolitica di tutta la globalizzazione tecnoeconomica.Le viscere della Tradizione Primordiale divampano come un fuoco rinnovato per salvaguardare di nuovo l’uomo dalle sue sciagure. È tempo di risvegliarsi e mettersi al servizio del Cielo andando oltre quei limiti indotti dallo schema politico illuminista della destra e della sinistra riportando in auge il significato più profondo della politica.L’intero volume è finalizzato ad individuare un modello politico di riferimento che renda attuabile ancora oggi la sacralità dell’imperium in attesa messianica di un imperatore planetario come il Kulika di Shambala e/o il Melchisedec di Salem, una prospettiva comparata fondata sulla visione di una teocrazia complessa che funga da fondamento costituzionale per la instaurazione di una nuova aristocrazia dello spirito.Il volume si interroga infine su come progettare il mutamento istituzionale a partire dall’elaborazione di una visione condivisibile, cercando di dare risposte concrete e stimoli per la generazione di un dibattito nuovo e ritenuto eretico da certi ambienti: una soluzione alla crisi europea e mondiale per una transizione verso la felicità.

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Impero

Il piano Colao è la deindustrializzazione finale dell’Italia decisa dal nuovo ordine mondiale

di Cesare Sacchetti

Il piano Colao assomiglia terribilmente alla deindustrializzazione finale del Paese.

Il capo della task force di tecnici assembrata da Conte, già membro del gruppo Bilderberg e ed ex amministratore delegato di Vodafone, ha raccomandato espressamente che le quote delle partecipate pubbliche, sia quelle statali che degli enti locali siano trasferite ad investitori privati.

Il contesto emergenziale sarebbe in questo caso la cartina di tornasole ideale per aggirare tutte le complesse procedure burocratiche da seguire per la vendita delle azioni delle imprese pubbliche.

Colao e il suo gruppo in queste righe che seguono, riprese dal capitolo dedicato alle partecipate, suggeriscono esplicitamente di rendere più agevole il processo di trasferimenti azionari delle partecipate, preparando così il terreno alle future dismissioni.

“Semplificazione delle procedure di vendita delle azioni (art. 10, comma 2), consentendo che la situazione emergenziale legittimi anche “l’alienazione mediante negoziazione diretta con un singolo acquirente.”

Le società pubbliche sono il tesoro ultimo dell’Italia, sono la residua ricchezza che è stata accumulata dal dopoguerra ad oggi grazie alla facoltà di avere una moneta sovrana e un modello economico radicalmente antitetico al paradigma ordoliberista che si sta seguendo scelleratamente dal 1992, anno dell’ingresso dell’Italia nell’UE, quando l’Italia sacrificò la sua valuta e la sua economia sull’altare dei parametri di Maastricht.

Ora il lento ed inesorabile processo di omicidio politico-economico di una nazione sembra volgere al termine.

Il patrimonio di un popolo e di una nazione sembra pronto ad essere consegnato ai rapaci fondi di investimento stranieri e alla grande finanza internazionale.

Ognuno potrà prendersi la sua fetta di torta in quella che potrebbe essere una messa all’asta dell’intero Paese.

Tutti i grandi gioielli rimasti in mano allo Stato, tra i quali Finmeccanica e le Ferrovie dello Stato e le partecipate degli enti locali che da tempo fanno gola ai fondi di investimento internazionali, soprattutto quelli cinesi che potrebbero accaparrarsi il redditizio settore dei trasporti locali, potrebbero passare in mani straniere.

Si pensi solo agli enormi profitti che una società straniera potrebbe ricavare, ad esempio, dalla gestione dell’ATAC, l’azienda comunale del trasporto locale a Roma.

Ma nelle dismissioni potrebbero confluire anche quote di aeroporti, porti e altre infrastrutture vitali e strategiche per l’economia nazionale.

Non sarebbe quindi solamente una privatizzazione di aziende pubbliche, ma sarebbe l’intero Paese ad essere privatizzato.

Tutto quanto sostanzialmente passerebbe a capitali esteri che si spartirebbero il bottino dell’Italia.

La stessa idea che possa ancora esistere una nazione di fronte ad un piano simile sarebbe messa in crisi, perchè tutto ciò che costituisce il suo apparato vitale sarebbe consegnato a gruppi stranieri che assumerebbero una posizione di assoluto monopolio nell’economia italiana.

Basti pensare a cosa potrebbe accadere se le Ferrovie dello Stato fossero gestite da un fondo sovranazionale.

Quel fondo avrebbe il potere di decidere i prezzi, ma anche il passaggio e gli orari nei quali si spostano i mezzi ferroviari.

Quel fondo gestirebbe una fetta importantissima del trasporto italiano. Potrebbero essere questi capitali a decidere come e quando viaggiano gli italiani.

Non sarebbe altro che una vera e propria occupazione del Paese, attuata in una forma silenziosa e ancora più subdola, senza essere accompagnata dall’usuale passaggio di cingolati che invece contraddistingue invece l’occupazione militare.

La deindustrializzazione dell’Italia decisa dal comitato dei 300

Quanto accadrebbe se il piano Colao dovesse diventare realtà non sarebbe altro che l’ultimo atto di un progetto iniziato in realtà molti decenni indietro, a partire almeno dagli anni’70.

John Coleman, ex agente del servizio segreto britannico MI6, denunciò già nel 1982 che cosa avevano in mente le grandi élite per il Belpaese.

Coleman raccolse le sue conclusioni in un libro intitolato “Il comitato dei 300” nel quale praticamente c’è tutto quello che è accaduto negli ultimi 35 anni in Italia.

Il destino del Paese era stato già deciso da questa potente organizzazione sconosciuta all’opinione pubblica italiana e internazionale ma che in realtà ha il potere di decidere il destino delle nazioni.

Questo gruppo ultraelitario costituito dalla grande finanza anglosassone e dalla finanza europea esiste almeno dal XVIII secolo e ne avrebbero fatto parte nel corso dei secoli personaggi politici di primissimo piano, come Winston Churchill, e famiglie tra le più potenti d’Europa e del mondo, tra i quali spiccano gli Agnelli e i Rothschild.

Secondo Coleman, è questa élite che gestisce altre importanti organizzazioni globaliste, come il famigerato gruppo Bilderberg al quale hanno partecipato Monti e lo stesso Colao come si è ricordato prima, e il Club di Roma fondato da Aurelio Peccei, già manager della FIAT e della Olivetti.

La morte dell’Italia è stata decisa da queste importanti figure che ne avevano decretato l’estinzione già negli anni’70.

Lo scopo di queste grandi famiglie è sostanzialmente quello di favorire la nascita di un governo unico mondiale che cancelli definitivamente la storia e il ruolo degli stati nazionali.

Il Club di Roma e il comitato dei 300 per arrivare a realizzare questo disegno dovevano necessariamente aggredire l’Italia, la sede della Chiesa Cattolica e quindi custode prediletta della fede e della tradizione cristiana.

La scristianizzazione assume un ruolo fondamentale in questo piano, perchè essa è intrinsecamente collegata alla storia delle nazioni.

Per arrivare alla fine delle seconde, bisogna necessariamente passare per la prima e i risultati sono stati conseguiti se si guarda al progressivo allontanamento da questa religione in Europa.

Moro ucciso perchè non voleva la morte dell’Italia

Un uomo si era già opposto a questo disegno criminale ed era Aldo Moro. Per Coleman, l’ex presidente della DC pagò con la vita la sua opposizione ai piani di queste élite.

Moro era fermamente contrario al depopolamento del Paese e voleva piuttosto una società con una piena occupazione fortemente industrializzata.

Il presidente sostanzialmente voleva il bene dell’Italia e non si poteva permettere che restasse in vita.

Scrive Coleman a questo proposito.

“Nella mia denuncia del 1982 di questo atroce crimine, ho dimostrato che Aldo Moro, un membro leale della Democrazia Cristiana, fu ucciso da assassini controllati dalla loggia massonica P2 con l’obbiettivo di portare l’Italia in linea con gli ordini del Club di Roma di deindustrializzare il Paese e ridurre considerevolmente la sua popolazione. I piani di Moro di stabilizzare l’Italia attraverso la piena occupazione e la pace politica e industriale avrebbero rafforzato l’opposizione cattolica al comunismo e reso la destabilizzazione del Medio Oriente – obbiettivo primario – molto più difficile.”

Senza lo smantellamento dell’Italia, sarebbe stato praticamente impossibile per questi gruppi globalisti arrivare al loro tanto agognato nuovo ordine mondiale.

E’ per questo che fu deciso l’omicidio dello statista della DC, già minacciato pesantemente da Kissinger, all’epoca segretario di Stato USA e membro del gruppo Bilderberg.

Corrado Guerzoni, storico collaboratore di Moro, rivelò in una testimonianza in un processo sulla morte dell’ex ministro degli Esteri, le minacce esplicite pronunciate da Kissinger contro di lui.

“O abbandona la sua linea politica, oppure la pagherà a caro prezzo.”

Il prezzo è stato pagato con il sangue di Moro ucciso dalle BR, pesantemente infiltrate dalla CIA, nel 1978.

Che si creda o no a Coleman, ha poca rilevanza.

Tutto quello che è accaduto dal’78 in avanti è stata una realizzazione di questo piano.

Negli anni successivi, è iniziato lo smantellamento del Paese.

Prima nel 1981 è stato tolto al ministero del Tesoro la facoltà di controllare la sua banca centrale, Bankitalia, con risultati disastrosi sui livelli del debito pubblico schizzati alle stelle per questa scellerata decisione presa da Andreatta, ministro del Tesoro all’epoca, e Ciampi, governatore di Bankitalia.

Poi è iniziata la prima ondata di svendite del patrimonio pubblico industriale realizzata da Romano Prodi divenuto presidente dell’IRI nel 1982.

Successivamente nel 1992 c’è stato il grande e quasi definitivo saccheggio delle grandi industrie di Stato eseguito a bordo del panfilo Britannia della Regina Elisabetta, la leader del comitato dei 300 secondo Coleman, officiato da Mario Draghi, allora dirigente del ministero del Tesoro.

Da allora c’è stato l’ingresso in Maastricht, l’adozione dell’euro e la perdita definitiva della sovranità monetaria.

I risultati sono stati appunto quelli di una massiccia deindustrializzazione come mai vista prima nel Paese.

I piani del comitato dei 300 sono stati eseguiti alla perfezione. Ma per arrivare al loro compimento definitivo occorre il colpo di grazie e la disgregazione finale del tessuto economico dell’Italia.

Il piano Colao è la chiusura del cerchio di questo progetto. E’ l’ultimo passo per drenare la nazione delle sue ultime risorse e consegnarla interamente nelle mani della finanza internazionale e dei potentati stranieri.

La realizzazione del nuovo ordine mondiale passa inevitabilmente per la fine dell’Italia.

Più accelera la seconda, più si avvicina il primo.

Si è quindi alle battute finali di un disegno diabolico e criminale perpetrato grazie ad una classe di politicanti traditori della propria nazione completamente corrotti e asserviti a questi poteri.

Il piano probabilmente riuscirà, ma l’auspicio è che chi ha procurato tanto male sia chiamato a risponderne prima o poi.

Il male ha un inizio ma avrà anche inevitabilmente una sua fine. Finché esisteranno italiani nel Paese e in giro per il mondo orgogliosi delle loro origini e della loro storia, ci sarà una possibilità un giorno, si spera non troppo remoto, di ricominciare.

Questi italiani sono la speranza per ricostruire tutto quello che è stato distrutto negli ultimi 40 anni.

Liberamente tratto da: lacrunadellago.net

Italia Craccata

STRETTA DI MANO ADDIO? IL NUOVO SALUTO DI REGIME NEI MESSAGGI SUBLIMINALI DI HOLLYWOOD

di Obscene

Ogni film ha un «contenuto ideologico». E’ l’insieme delle idee, delle opinioni e delle valutazioni che esso trasmette, in relazione agli argomenti trattati. Narrando un fatto, un film prende sempre posizione: lui è buono e l’altro è cattivo; questo è giusto e quello è sbagliato; ciò è bene e ciò è male. Inoltre, narrando un fatto, c’è sempre una coreografia di oggetti e personaggi e uno sfondo di situazioni e di avvenimenti; questi sono stati oggetto di una scelta in genere precisa: viene deciso non solo ciò che si vede, e in che termini, ma anche ciò che non si vede.

Non necessariamente l’Autore opera tali scelte di proposito; in genere è così, perché si tratta di professionisti che sanno quello che fanno, ma questo è il risultato di ogni narrazione umana, sotto qualunque forma eseguita: dietro ogni topica c’è una presa di posizione e ci sono delle esclusioni. Il contenuto ideologico è più evidente nei film che trattano di politica, di guerra, di spionaggio e di fatti storici.

Il contenuto ideologico non riguarda solo grandi temi, sociali, politici o storici, e non riguarda solo idee normalmente oggetto di dibattito: come detto, ogni film ha un contenuto ideologico, che in genere riguarda la quotidianità. L’uomo che spende tanto tempo ed energie per conquistare la sua amata presuppone che così si debba fare, opinione non condivisa in vaste parti del mondo. Analogamente per l’uomo che lavora otto ore al giorno in una organizzazione, e la cui vita è predeterminata al minuto. La donna che armeggia in cucina con tanti elettrodomestici li rende scontati.

Sin qui siamo rimasti nell’ambito del contenuto ideologico avvertibile, sia pure in qualche caso a fatica. In moltissimi film sono poi stati inseriti – e sono inseriti – dei messaggi subliminali. La tecnica subliminale è nata quando si sono fatte le seguenti scoperte: che l’inconscio umano esiste; che percepisce ogni informazione che oltrepassa gli organi di senso, anche se per qualche motivo la coscienza non la avverte; che la elabora in modo meccanico, predeterminato e acritico; e infine che il risultato di tale elaborazione influenza il soggetto, anche se costui non se ne accorge.

Questo campo di indagine fu aperto da Freud, lo scopritore dell’inconscio; continuato negli anni Trenta da molti altri, fra psicanalisti, psicologi, psichiatri, sociologi e specialisti della comunicazione e della pubblicità commerciale e politica; e enormemente sviluppato negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale per migliorare l’efficacia della propaganda.

Un messaggio subliminale in un film è dunque un’immagine o una breve scena apparentemente innocua, sulla quale la coscienza non si sofferma, ma che l’inconscio afferra ed elabora in un modo previsto, influenzando quindi il pubblico a sua insaputa.

Se è chiaro che finita la pandemia da CoViD-19 gli abbracci non scompariranno, la stretta di mano potrebbe venire rimpiazzata per sempre da altri saluti meno “rischiosi”.

Decisa, sudata, molliccia… Ha molte sfaccettature, la stretta di mano, un gesto di saluto quasi globale e bandito dall’inizio della pandemia da CoViD-19. Le sue origini risalgono a migliaia di anni fa, e denotano l’intrinseca socialità dell’uomo. «Il fatto che ora, per evitare il contagio, ci siamo inventati il saluto “gomito contro gomito” dimostra l’importanza che diamo al contatto», spiega Cristine Legare, professoressa di psicologia all’Università del Texas a Austin.

Il contatto con il prossimo non è sempre stato di vitale importanza (o, perlomeno, c’è stato un periodo in cui non era ben visto): nella prima metà del XX secolo, molti psicologi erano convinti che i gesti d’affetto potessero trasmettere malattie ai bambini e causare loro problemi psicologici in età adulta.

Negli anni Venti del Novecento, l’American Journal of Nursing pubblicò diversi articoli che mettevano in guardia dalle strette di mano, veicoli di batteri, consigliando agli statunitensi di adottare l’usanza cinese di giungere le proprie mani in segno di saluto.

Il saluto romano, così detto perché in passato fu ritenuto derivare da una tradizione dell’antica Roma, è una forma di saluto utilizzata in varie parti del mondo nel periodo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, che prevede il braccio destro alzato di circa 135 gradi rispetto all’asse verticale del corpo con il palmo della mano rivolta verso il basso e le dita unite.

La cinematografia e la tradizionale iconografia hanno diffuso altri tipi di gesti di saluto: il saluto detto legionario che consiste nel battere il pugno o la mano destra tesa sul petto (usato in parte ancora oggi in certe forme di “presentat’arm” militare), e il saluto detto gladiatorio, consistente nell’affiancare l’avambraccio destro di chi saluta a quello di chi si vuol salutare e scambiarsi una reciproca stretta al di sopra del polso.

Insomma, finita la pandemia torneremo a stringerci le mani o sarà un buon motivo per smettere di farlo per sempre?

Anthony Fauci, immunologo in prima linea nella task force ingaggiata dal governo Trump, ha le idee chiare: «A essere sincero, penso che non dovremmo tornare mai più a stringerci le mani», afferma.

Liberamente tratto da Obscene

Rituali hollywoodiani?

India, obiettivo: rivoluzione in agricoltura

di Matteo Bernardelli

Cambio di passo per il settore primario. Riforme nel marketing agricolo, nella gestione delle eccedenze commerciabili, nell’accesso degli agricoltori al credito istituzionale e nel sostegno legislativo per garantire adeguato valore all’interno della filiera ai contadini.

L’India prepara una rivoluzione in agricoltura, con un piano di riforme che gli esperti sostengono essere il più impattante degli ultimi decenni, destinata a incidere sul futuro dell’intero sub-continente indiano e sulla vita di milioni di agricoltori. Nei giorni scorsi il primo ministro indiano Narendra Modi ha iniziato una riflessione su quali risposte attende il mondo agricolo, alla luce del lockdown da Covid-19. Ne ha parlato con gli stakeholder e ha un piano articolato da attuare.

Al centro dell’attenzione saranno poste riforme nel marketing agricolo, nella gestione delle eccedenze commerciabili, nell’accesso degli agricoltori al credito istituzionale e nel sostegno legislativo per garantire adeguato valore all’interno della filiera ai contadini.

L’uso della tecnologia è considerato dal primo ministro Modi strategico e come parte della soluzione, se si vuole migliorare la competitività del settore. Già in queste fasi caratterizzate dal Covid-19 è stata lanciata una app per aggregare i trasporti di materie prime agricole, tenuto anche conto che i mercati erano stati chiusi o ha funzionato un gruppo Whatsapp per la vendita dell’ortofrutta.

Per il ministro dell’Agricoltura, Narendra Singh Tomar, nel 2019 il settore è cresciuto del 3,7% e quest’anno, nonostante le circostanze avverse, crescerà del 3% circa. Tuttavia, per un paese come l’India, è poco.

In un’intervista rilasciata nei giorni scorsi ai media indiani, Tomar è convinto che le riforme nel suo complesso “daranno un grande contributo al settore, e mi aspetto che il settore primario segnerà un tasso di crescita del 4,5% nei prossimi tre anni del Pil”. Una crescita già accettabile per rispondere ai bisogni della società, soprattutto considerato la conformazione del settore.

Il gigante indiano è costellato da milioni di aziende agricole a conduzione familiare, collocate nella seconda più grande superficie arabile del mondo, situata in quindici zone agro-climatiche.
Le piccole aziende – con una superficie inferiore ai due ettari – costituiscono l’86,21% delle proprietà terriere totali nel paese. Tale struttura non solo non consente agli agricoltori di avere un reddito sufficiente o sostenibile, ma è anche molto dannosa per la produttività complessiva perché più piccolo è l’agricoltore, minore il capitale, la sperimentazione di colture, semi, uso dell’acqua, fertilizzanti.

Il cambio di passo dell’agricoltura indiana dovrebbe dunque passare dal rafforzamento dell’ossatura, grazie alla creazione di Organizzazioni di produttori, cooperative, forme di aggregazione chiamate a favorire la vitalità dell’economia agraria, la trasparenza nel commercio agricolo e consentire i massimi benefici agli agricoltori.

Una riforma organica che dovrebbe rispondere anche al tema della manodopera. Il fabbisogno di manodopera in agricoltura e lungo la filiera è piuttosto alto, tenuto conto della scarsa meccanizzazione. L’introduzione di nuove tecnologie dovrebbe modificare il mercato del lavoro, aprendo a una fase nuova.
Contemporaneamente, anche l’export è oggetto di attenzione, sia per le peculiarità dell’agricoltura indiana, caratterizzata da una vasta fascia geografica produttiva, sia per le opportunità che una rinnovata logistica, rafforzata da catene del freddo efficienti, infrastrutture meglio collegate fra loro e nuove occasioni commerciali possono offrire.

La crisi innescata dalla pandemia, con il lockdown imposto dal governo agli indiani, ha messo in evidenza le potenzialità del colosso indiano in agricoltura, denunciando allo stesso tempo alcune storture, come ad esempio di divieto di commercializzare i prodotti da uno Stato indiano all’altro. La catena degli approvvigionamenti è stata decisamente rallentata, ma ha saputo comunque funzionare, anche se talora a singhiozzo.

L’agricoltura ha risposto alla prova, soddisfacendo alle esigenze delle città, e benché alcuni segmenti produttivi siano entrati in difficoltà (in particolare l’ortofrutta e il latte), per effetto prevalentemente delle chiusure di moltissimi mercati locali a scopo cautelativo.
Per alcuni aspetti, l’offerta dei prodotti agricoli indiani è eccedentaria in questa fase e ci si aspetta che, per effetto di un’ondata di disoccupazione innescata dal Covid-19, i consumi interni seguiranno una curva discendente, offrendo però la possibilità alternativa di esportare come antidoto all’avvitamento negativo dei prezzi e alle chiusure di bar, ristoranti, hotel, mense, ostelli.

Ad oggi l’export agricolo (38 miliardi di dollari nel 2018) è ancora marginale, rappresenta poco più dell’11% delle esportazioni totali dell’India e poco meno del 2,5% del commercio agricolo mondiale, secondo i dati riportati in un’analisi pubblicata recentissimamente da Pravesh Sharma.
Servono, secondo gli analisti, politiche mirate e proattive a sostegno dell’export, affrontando la competitività dei mercati globali con la forza della sicurezza alimentare, della tracciabilità, della qualità delle produzioni.

La proposta di riforma sostenuta anche dal ministro delle finanze dell’Unione, Nirmala Sitharaman, si poggia su un pilastro giudicato essenziale: i contratti in agricoltura, che permetterebbero di assicurare maggiore prosperità agli agricoltori, lasciando una maggiore libertà di scelta delle colture.
I contratti di filiera sono visti anche come soluzione per fermare i suicidi degli agricoltori e per ovviare a una delle grandi problematiche dell’agricoltura indiana: la mancanza di diversificazione delle colture. Oggi infatti, le decisioni degli agricoltori sono dettate dalle politiche del Governo sui prezzi minimi di sostegno, che sono maggiormente orientate verso le colture alimentari.
Questo ha danneggiato la biodiversità, orientando i produttori verso le colture maggiormente remunerate, come grano o riso, finalizzate al garantire cibo alla popolazione.
Con la possibilità di sottoscrivere contratti gli agricoltori potranno coltivare anche qualsiasi altra coltura non alimentare, purché ottenga lo stesso prezzo o più alto.

La Camera di commercio indiana esorta gli Stati ad attuare le riforme agricole nell’interesse dei produttori, affermando che la proposta di modifica dell’atto sulle materie prime essenziali, che consente agli agricoltori di ottenere il miglior prezzo per i loro prodotti sui mercati (locali, nazionali o globali), è uno spartiacque nella storia economica dell’India in quanto rimuove la disintermediazione e lascia il mercato all’agricoltore.

Liberamente tratto da: Agronotizie

L’uso della tecnologia è considerato dal primo ministro indiano Narendra Modi strategico e come parte della soluzione

La pericolosa danza di Cina e India lungo il confine conteso

di Lorenzo Lamperti

Dopo tre anni di quiete, tornano le tensioni in diverse zone dell’enorme confine conteso tra Pechino e Nuova Dehli. Costruzioni militari, scontri e ammassamento di truppe, mentre Trump prova ad arruolare Narendra Modi nella contesa contro la Repubblica Popolare

“Il dragone cinese e l’elefante indiano non combatteranno più tra di loro, ma danzeranno”. Era il 2018 quando Wang Yi, il ministro degli Esteri di Pechino, dichiarava chiusa la crisi del Doklam e proiettava i rapporti con Nuova Dehli su una nuova dimensione. Due anni dopo, però, quella danza sembra essere più un difficile lavoro di equilibrismo col rischio di cadere giù. Sono ormai settimane che Cina e India sono coinvolte in un teso confronto tra militari in più punti dell’enorme confine (circa 3500 chilometri), in parte conteso. Costruzioni, manovre e incursioni reciproche sono già sfociate in scontri e (molto probabilmente) presa di prigionieri. E, mentre Donald Trump prova a sfruttare l’occasione per arruolare Narendra Modi contro la Cina in un G7 allargato, i rapporti tra i due giganti d’Asia rischiano di precipitare ai minimi dopo decenni di relativa tranquillità. In un momento nel quale la Cina ha diversi grattacapi con i suoi “vicini di casa”.

I CONFINI CONTESI

Quella tra Cina e India è una contesa territoriale che ha più di un secolo, sin dalla linea McMahon tracciata nel 1914 e non riconosciuta da Pechino perché frutto di un accordo tra il Tibet autonomo e l’India britannica, con cessioni di una parte importante di territorio da quella che sarebbe poi diventata una regione autonoma della Repubblica Popolare. Una contesa che riguarda diverse aree. In primis l’Aksai Chin, regione montuosa del Kashmir in mano alla Repubblica Popolare dalla guerra sino-indiana del 1962, nella quale sono morti circa duemila soldati. Si tratta di un’area montuosa che funge da strategico collegamento tra Tibet e Xinjiang e che Nuova Dehli continua a rivendicare come parte del Ladakh, una delle divisioni dello stato di Jammu e Kashmir. Non solo. L’Aksai Chin ha un’altra porzione di territorio ceduta nel 1963 alla Cina dal Pakistan e che funge da cuscinetto tra Xinjiang e l’entità autonoma del Gilgit-Baltistan, controllata da Islamabad.

La coda allungata dell’Aksai Chin tocca anche la zona strategica del lago himalayano Pangong Tso, che dal territorio indiano arriva a toccare il principale snodo stradale del Tibet. Il tutto dopo essere passata anche a toccare altri due stati indiani, l’Himachal Pradesh (dove col benestare di Nuova Dehli risiede, nella città di Dharamsala, il Dalai Lama fuggito dal Tibet dopo l’arrivo di Mao nel 1950) e l’Uttaranchal. Scendendo a sud est, invece, si trovano altre due aree dove la tensione è alta. La prima è quella del Sikkim, incastonato tra Nepal e Bhutan ed entrato a far parte dell’India nel 1975 con un referendum. La seconda, andando ancora più verso oriente dopo il Bhutan, è quella dell‘Arunachal Pradesh, stato controllato dall’India ma rivendicato da Pechino.

Su tutte queste zone si sono vissuti a più riprese momenti di tensione per contese mai risolte. L’ultima delle quali era datata estate 2017, quando per le rispettive truppe si sono fronteggiate per due mesi sull’altopiano di Doklam, collocato in un’area a cavallo tra India, Cina e Bhutan. Un confronto nato per la costruzione di una strada da parte dei cinesi, che gli indiani reputavano sorgere sul territorio bhutanese.

I NUOVI SCONTRI

Dopo quasi tre anni di calma le tensioni sono però tornate. Tutto nasce da movimenti contrapposti, che hanno preso il via con la realizzazione di una strada sul passo di Lipulekh, nei pressi di un’area contesa tra India e Nepal. India che ha iniziato anche costruzioni militari dal suo lato di confine nel territorio di Ladakh. Nuova Dehli è particolarmente attiva negli ultimi mesi nell’area, con l’allestimento di nuove infrastrutture e in particolare di una strada ad alta quota che sfiora uno dei luoghi in cui si sono verificati scontri nel 2013 e di un tunnel. Opere volte a favorire il movimento delle truppe lungo il confine conteso e che ha dunque messo in allarme la Cina, i cui militari avrebbero invece, secondo fonti indiane, sforato oltre la linea di controllo “distruggendo postazioni e ponti”. Fino a toccare la valle del fiume Galwan, che finora non era stata oggetto di dispute.

Se in questa porzione le truppe di Nuova Dehli sembrano aver guadagnato posizioni a livello strategico e rappresenterebbero un ostacolo considerevole per quelle di Pechino, i cinesi sono, secondo diversi analisti, in netto vantaggio nelle altre due sezioni contese, il Sikkim e l’Arunachal Pradesh. Ed è proprio qui che, specularmente a quanto accade più a nord ovest, l’India guarda con attenzione le manovre delle truppe cinesi al confine. Con Pechino che, sempre specularmente a quanto accade tra Ladakh e Aksim Chin, accusa Nuova Dehli di aver eretto “strutture illegali” di difesa e di aver travalicato la linea di controllo.

Manovre reciproche che hanno portato a una serie di confronti, a partire dal 5 maggio, quando due contingenti si sono scontrati nella zona del lago Pangong Tso a suon di schiaffi, pugni e lancio di pietre. Tre giorni dopo, un secondo confronto al passo di Naku La, nel Sikkim, con le truppe indiane che hanno fermato una pattuglia cinese in perlustrazione.

Non è chiaro quanti militari siano coinvolti nel confronto, anche se l’India sostiene che tutto nasca proprio dallo schieramento di un numero eccessivo di truppe (secondo alcune informazioni sarebbero cinquemila) in corrispondenza del lago Pangong Tso da parte della Cina. Continua a essere rispettato il patto di non aprire il fuoco, che regge dal 1975 e i due governi continuano a ripetere che la situazione è “stabile e sotto controllo“. Ma le preoccupazioni che erano cominciate già dalla revoca dell’autonomia del Kashmir da parte dell’India, che aveva portato a una pericolosa escalation con il Pakistan, sono in aumento.

LE RELAZIONI PERICOLOSE TRA CINA E INDIA

Ma c’è anche chi ritiene che la reazione cinese di fronte alle costruzioni indiane sia motivata anche da motivi geopolitici e diplomatici. Quasi di avvertimento per dire di non schierarsi con gli Stati Uniti, che stanno provando ad arruolare Nuova Dehli nella sua contesa globale con Pechino. Un’impresa difficile, vista la sua posizione tradizionalmente non allineata, che però rappresenta il più immediato e vero spauracchio dell’ascesa cinese. L’India non ha mai visto di buon occhio la Via della Seta, il progetto del PCC considerato da Modi come un’invasione di campo non solo infrastrutturale ma anche diplomatica nella sua tradizionale sfera di influenza regionale. Basti pensare a che cosa è successo in Sri Lanka e al porto di Hambantota, o agli investimenti nelle Maldive. O in Nepal, dove Xi Jinping è stato per una storica visita negli scorsi mesi. Senza contare l’alleanza tra Cina e Pakistan, dove il porto di Gwadar (terminale del corridoio sino-pakistano che parte dalla città di Kashgar nello Xinjiang) può diventare una spina nel fianco per l’India e trampolino di lancio per l’estroversione cinese, consentendo di aggirare lo stretto di Malacca. Nonostante i ripetuti inviti, Modi non ha partecipato all’ultimo forum Belt and Road di aprile 2019 a Pechino.

Rispetto ad altri paesi asiatici, l’India non è assimilabile nel progetto cinese, né sinizzabile. I due summit, nel 2018 e nell’ottobre 2019, tra Xi e Modi hanno rilassato i rapporti ma il grande rilancio a cui si puntava non è mai avvenuto. Nuova Dehli si è invece avvicinata molto al Giappone, altro rivale strategico di Pechino. E la pandemia non ha fatto che accelerare alcuni processi in atto, come per esempio la ricerca dell’autosufficienza da parte indiana, che mal sopporta l’immenso surplus commerciale della Repubblica Popolare nei suoi confronti. Non sarà semplice, se si considera la grande dipendenza dal mercato cinese in alcuni settori cruciali: il 90% dell’import dei farmaci salvavita arriva da lì, così come l’80% dell’equipaggiamento medico e il 30% delle componenti per auto.

Negli scorsi giorni, il Global Times ha pubblicato diversi articoli in cui avverte l’India di non schierarsi con Washington in una nuova guerra fredda. E la tensione, da strategico-militare rischia di diventare anche economica e diplomatica, come dimostra lo stop all’import di carne suina indiana introdotto da Pechino. Dall’altra parte, l’India è invitata a entrare in una sorta di alleanza anti Huawei sul 5G e alcuni esponenti del Bjp (il partito di maggioranza) che si sono esposti per l’inclusione di Taiwan all’assemblea dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Con il Partito Comunista che minaccia conseguenze per le imprese e i produttori indiani. Donald Trump si è persino offerto di mediare tra i due contendenti sul tema del confine conteso (offerta per ora respinta da entrambi i governi) e, come detto, vuole includere Nuova Dehli nel G7 allargato dopo l’estate.

Complicato che il G11 trumpiano vada in porto, ma intanto truppe e artiglieria continuano ad ammassarsi lungo il confine conteso tra Cina e India. Dragone ed elefante stanno conducendo una danza rischiosa.

Liberamente tratto da Chinafiles.com

Xi Jinping e Narendra Modi

Giappone, India, Vietnam, Australia: le spine della Cina in Asia e Pacifico

Non solo lo scontro con l’altra superpotenza, gli Stati Uniti. La strategia China Exit di Tokyo, gli scontri lungo il confine conteso con New Dehli, le tensioni marittime con Hanoi e la trade war con Canberra: Pechino deve affrontare anche delle sfide regionali con i suoi “vicini di casa”.

Gli Stati Uniti, certo. Ma la Cina ha qualche noia diplomatica anche più vicina. Giappone, India, Vietnam e Australia sono tutte coinvolte in maniera più o meno diretta in dispute con Pechino. E se nei rapporti bilaterali l’Impero Celeste può sempre far valere il suo maggiore peso in termini economici e geopolitici, mettere insieme tutti questi nodi può far sì che si crei un groviglio quasi inestricabile proprio sull’uscio di casa.

COREE PIU’ VICINE

Sarebbe sbagliato dire che la pandemia da coronavirus ha pregiudicato la diplomazia cinese in Asia. Anzi, in alcuni casi è vero il contrario. Con la Corea del Sud i rapporti sono in costante miglioramento: Moon Jae-in, il cui partito ha appena stravinto le elezioni legislative dello scorso 15 aprile, è un fautore del consolidamento dei rapporti con Pechino, anche e soprattutto nell’ottica Pyongyang. Con la “ritirata” americana dall’Asia orientale, al di là delle scenografiche camminate di Donald Trump nella zona demilitarizzata, appare ormai evidente a Seoul che per andare verso una normalizzazione dei rapporti con la Corea del Nord bisogna rivolgersi a Xi Jinping. E la cooperazione sanitaria da Covid-19 dimostra che i due governi intrattengono un costante dialogo.

NUOVO IMPULSO ALLA VIA DELLA SETA NEL SUD EST

La Via della Seta non ha subito particolari rallentamenti, anche perché coi paesi che ne fanno parte di problemi diplomatici, almeno per il momento, non ce ne sono. Nelle scorse settimane sono ripartiti i lavori della linea ferroviaria tra Cina e Laos, un progetto colossale che avrebbe come suo termine finale Singapore, dopo essere passata anche per la Thailandia. Il primo ministro della Cambogia, Hun Sen, si è recato in piena epidemia a Pechino per mostrare la sua vicinanza politica al grande vicino. Numerosi contatti istituzionali con le Filippine, che con Rodrigo Duterte hanno intrapreso una linea più amichevole verso Pechino (anche se proprio negli ultimi giorni si è registrato un riavvicinamento per certi versi storico tra Manila e Hanoi per risolvere le dispute marittime). Rafforzate le relazioni anche con Myanmar. Negli scorsi giorni Xi ha parlato al telefono con il presidente birmano U Wint Myint e la cooperazione prosegue anche sul piano militare nelle movimentate zone di confine.

LE AMBIZIONI MARITTIME E COMMERCIALI DEL VIETNAM

Per ogni rosa però c’è anche una spina. A creare qualche pensiero a Pechino c’è il Vietnam. Hanoi ha saputo contenere in modo molto efficace il coronavirus, tanto da non registrare nemmeno un decesso ufficiale. E, nonostante sui media occidentali se ne sia parlato molto meno, ha anch’esso lanciato una piccola campagna diplomatica di aiuti sanitari, con l’invio di mascherine anche verso l’Italia. Il Vietnam è stato uno dei primi paesi al mondo, insieme all’Italia, a chiudere i collegamenti aerei diretti con la Cina, e vive un momento di tensione con Pechino. Attriti presenti da diversi decenni e che ruotano intorno alle acque e isole contese nel Mar cinese meridionale. Il governo vietnamita ha rigettato il divieto di pesca imposto dal 1° maggio al 16 agosto dalla Cina nell’area delle isole Paracelso e ha invitato i suoi pescatori a ignorarlo e proseguire le attività. Tale assertività deriva in parte anche dalla presidenza di turno dell’Asean, che appare invece ancora in larga parte spaccato sull’approccio da prendere nei confronti dell’estroversione cinese, con tanti paesi consapevoli del legame economico che non può essere spezzato senza gravi conseguenze, soprattutto in un’epoca post Covid dove la direzione intrapresa sembra essere quella di una slowbalisation regionalizzata. Il Vietnam spera in realtà di diventare quello che in parte è già, un grande hub commerciale dell’area del Sud Est. Anche grazie alle delocalizzazioni dalla Cina. Obiettivo che potrebbe essere favorito dalle politiche del Giappone.

IL COVID-19 RALLENTA LA DIPLOMAZIA PECHINO-TOKYO

I rapporti tra Pechino e Tokyo hanno subito un improvviso rallentamento a causa della pandemia, anche perché il governo di Abe Shinzo ha dimostrato di avere velleità geopolitiche sconosciute, per esempio, alla Corea del Sud. Il Covid-19 ha portato al rinvio della visita programmata di Xi nella capitale nipponica, in quella che sarebbe dovuta diventare una celebrazione del grande riavvicinamento tra i due colossi dell’Asia orientale. Così non è andata, e per ora non c’è ancora una nuova data per l’evento, mentre sul fronte interno cresce il fronte di chi vi guarda con perplessità. Il governo Abe ha avviato una aggressiva politica di “China exit”, con pacchetti di stimoli dedicati alle imprese per sostenerne il “ritorno a casa” o comunque la delocalizzazione in altri paesi asiatici. L’obiettivo dichiarato è quello di avere una maggiore autosufficienza sia in campo sanitario sia in campo tecnologico, anche per evitare eventuali nuove restrizioni di Washington sui prodotti made in China.

TRA SENKAKU E FIVE EYES

Ma con il Giappone le contese sono anche strategiche. C’è sempre il nodo irrisolto delle isole Senkaku (o Diaoyu come le chiamano in Cina), con le rispettive navi che si sono incrociate nelle acque limitrofe nelle scorse settimane. Senza dimenticare il progressivo avvicinamento dei servizi segreti nipponici al Five Eyes, l’unione delle intelligence anglofone. Operazione condotta, ufficialmente, per avere informazioni sulla Corea del Nord e contenere Pyongyang con maggiore efficacia. Ma in realtà, secondo alcune fonti riportate di recente dal South China Morning Post, le discussioni riguarderebbero anche la Cina. E Tokyo, che ha più volte citato Taiwan chiedendone l’inclusione nell’assemblea Oms, ha chiesto chiarimenti all’ambasciatore cinese dopo l’annuncio della volontà di approvare una legge di sicurezza nazionale per Hong Kong.

TENSIONI AL CONFINE CON L’INDIA

Chi di sicuro ha contese territoriali irrisolte con Pechino è l’India, l’altro colosso asiatico. Nuova Dehli rappresenta, sin dall’inizio, uno scoglio al progetto della Belt and Road di Xi. Inassimilabile e storicamente impossibile da sinizzare, l’India rappresenta un ostacolo da aggirare, come dimostra la strategia cinese sul porto pakistano di Gwadar. Pechino e Nuova Dehli condividono un lungo e frastagliato confine che dal Sikkim arriva al Jammu e Kashmir passando per l’Himachal Pradesh. E che tocca sempre l’immenso territorio della regione autonoma del Tibet. È lungo questa frontiera montuosa che nelle scorse settimane si sono verificati diversi scontri tra truppe militari. Non a fuoco, per fortuna, ma a colpi di pugni e sassate. Con un bilancio provvisorio di 11 feriti ma soprattutto di tanta, tantissima tensione, in particolare al Pangong Tso, strategico lago dalla forma allungata che dal sud della città indiana di Ladakh arriva a lambire la principale arteria stradale tibetana. È qui che Nuova Dehli guarda con sospetto ai movimenti cinesi. Mentre dall’altra parte non hanno apprezzato la recente costruzione di una nuova strada al confine con il Nepal.

LA DIFFICILE AUTOSUFFICIENZA INDIANA

Il tema è molto sentito, tanto che anche la Casa Bianca è intervenuta schierandosi, ça va sans dire, con l’India. Nel frattempo, il primo ministro Narendra Modi ha presentato un piano economico per la ripresa che intende stimolare la produzione locale e limitare la dipendenza dalla Cina per le catene di approvvigionamento. Impresa non semplice, se si considera che il 90% dell’import dei farmaci salvavita arriva da lì, così come l’80% dell’equipaggiamento medico e il 30% delle componenti per auto. Dipendenza che si riscontra anche in tanti altri settori. Ad aggiungere qualche motivo di frizione diplomatica con New Dehli, anche l’appoggio esplicito a Taiwan dato da alcuni politici del Bjp, con il Times of India e l’Economic Times (due tra i principali quotidiani indiani) che hanno chiesto al governo passi del governo per l’inclusione di Taipei all’assemblea dell’Oms.

LA GUERRA COMMERCIALE CON L’AUSTRALIA

Ma c’è anche chi rischia di sprofondare, o forse è già sprofondato, in una vera e propria guerra commerciale con la Cina. Si tratta dell’Australia, tra i primi paesi a chiedere un’indagine internazionale sulle origini del Covid-19. Mossa non gradita al governo cinese, che ha imposto tariffe dell’80,5% sull’import di orzo (già crollato da 1.7 miliardi di dollari a 600 milioni tra 2018 e 2019), e sospeso quello di carne di manzo. Ma si starebbe pensando anche di disincentivare l’import di pesce, vino e latte. L’ambasciatore Cheng Jingye ha paventato anche un boicottaggio di turisti, studenti e consumatori. Contromisure che possono fare male, se si considera che Pechino è di gran lunga il primo partner commerciale per l’Australia, dove gli studenti e turisti cinesi rappresentano il 38% e il 15% del totale. Lo scontro è proseguito anche dopo l’assemblea dell’Organizzazione mondiale della sanità, durante la quale oltre 100 paesi hanno chiesto un’indagine internazionale sull’origine del virus e la Cina ha aperto a un’inchiesta a guida Oms a crisi terminata, ridicolizzando poi Canberra che rivendicava il risultato. Eppure il coinvolgimento, per ora solo “nominale”, dello stato del Victoria nella Belt and Road ha creato delle frizioni con Washington, tanto che Mike Pompeo ha detto che potrebbe essere a rischio la condivisione di alcune informazioni sensibili con l’Australia se la partnership si concretizzasse.

LE MIRE CINESI NEL PACIFICO

A peggiorare i rapporti, le recenti esercitazioni congiunte tra i militari americani e australiani nel Mar cinese meridionale, mentre il governo di Scott Morrison guarda con sospetto al tentativo di China Mobile di comprare Digicel, il principale network telefonico degli stati del Pacifico. Una situazione che ricorda un po’ quella di qualche anno fa sui cavi sottomarini alle Isole Salomone. Allora l’Australia ebbe la forza di rilanciare l’offerta cinese, senza comunque evitare il recente passaggio diplomatico di Honiara dalla parte di Pechino e la rottura dei rapporti con Taiwan. Passo compiuto subito dopo anche da Kiribati, arcipelago di cui l’isola Christmas dista solo poco più di duemila chilometri da Honolulu, sede del Pacific Command degli Stati Uniti. E qui si completa il giro, arrivando fin quasi sull’uscio di casa dell’altra superpotenza.

Di Lorenzo Lamperti*

**Giornalista responsabile della sezione “Esteri” del quotidiano online Affaritaliani.it. Si occupa di politica internazionale, con particolare attenzione per le dinamiche geopolitiche di Cina e Asia orientale, anche in relazione all’Italia

Liberamente tratto da: China-files.com

Xi Jinping