L’8 settembre è un giorno nefasto in quanto simbolo di un avvenimento che ha segnato il destino della storia d’Italia. Riavvolgendo i nastri della storia tuttavia scopriremo che quest’anno, in occasione di questa fatidica giornata, ricorre ilCentenario della Costituzione più bella del mondo. Ebbene sì, esattamente l’8 settembre di cento anni fa nella Città d’arte e di vita fu promulgata la Carta del Carnaro.
Breve cronistoria
Il 12 settembre 1919 D’Annunzio e i suoi legionari marciarono su Fiume. Il governo Nitti fu informato dell’azione tramite Il Giornale d’Italia tant’è che si pensò a un accordo segreto tra Nitti e D’Annunzio. Nitti, incaricò Badoglio di recarsi presso Fiume al fine di stabilizzare la situazione. Badoglio, in quanto amico del Vate, evitò che venissero a mancare ai fiumani i viveri e la minima assistenza. Nitti sancì il blocco totale degli aiuti e così Fiume, nel mese di marzo, sarebbe rimasta isolata. Fu a tal punto che D’Annunzio capì l’importanza di trasformare Fiume da stato di fatto a stato di diritto in maniera tale da poterne rivendicare la sovranità. Così, la sera del 30 agosto 1920 il poeta-soldato convocò la cittadinanza presso il teatro “Fenice” di Fiume. Con l’occasione venne letto lo Statuto sul quale sarebbe stato fondato il nuovo Stato. Nacque la Reggenza Italiana del Carnaro.
I postulati sociali
La Carta del Carnaro si presenta come un testo emblematico delle inquietudini sociali e politiche dell’Europa nell’immediato primo dopoguerra. Elaborata dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris e curata nello stile da Gabriele D’Annunzio la Carta, composta 65 articoli divisi in venti capitoli, stabiliva: un salario minimo; l’assistenza nell’infermità, nella disoccupazione, nella vecchiaia; il risarcimento del danno in caso di errore giudiziario o di abuso di potere; libertà di pensiero, di stampa, di associazione; libertà per ogni culto, purché non fosse usato come alibi per non compiere i doveri della cittadinanza; la proprietà privata era riconosciuta solo se fondata sul lavoro e purché improntata all’utilità sociale; il diritto di voto era garantito a tutti, sia uomini sia donne che avessero compiuto vent’anni; l’istruzione e l’educazione del popolo rappresentavano il dovere più alto della Repubblica. Questi, in sintesi, i postulati sociali della Costituzione fiumana.
Il filo rosso della rivoluzione sociale: dalla Repubblica Romana alla Costituzione Repubblicana
La Carta, fin dalle prime battute, risulta fortemente influenzata dalla Costituzione della Repubblica Romana (1849). I sindacalisti rivoluzionari, infatti, furono i maggiori seguaci di quel nazionalismo sociale che ebbe tra le proprie fila figure di spicco quali Mazzini, Garibaldi, Oriani e Pisacane. In tal senso, non dimentichiamo che alla stesura del programma di San Sepolcro contribuì proprio De Ambris. Invero, terminata l’esperienza fiumana, il fascismo mussoliniano farà propri alcuni dei principi della Costituzione fiumana riversandoli sia nella Carta del lavoro (1927) sia nella propria legislazione sociale la quale culminerà – in pieno periodo bellico – nel Decreto legislativo sulla socializzazione delle imprese del 12 febbraio 1944. Con la caduta del fascismo, la nuova Costituzione Repubblicana (1948) recepirà al Titolo III (artt. 35-47) molti di quei capisaldi che, nel corso di quegli anni, resteranno idealmente legati tra loro mediante il filo rosso della rivoluzione sociale. Per questi motivi la Carta dannunziana si presenta sotto diversi profili quale anticipatrice di diverse istanze prese all’interno dell’Assemblea Costituente italiana, nonchè come documento di pregevole fattura dal punto di vista storico, politico e costituzionalistico.
Fiume rappresentò trincea e laboratorio metapolitico dal quale ancora oggi è possibile attingere. D’Annunzio e De Ambris, con la Carta del Carnaro, ebbero il merito di lanciare la nuova crociata “contro le nazioni usurpatrici e accumulatici d’ogni ricchezza” in nome di una visione realmente solidale e progressista. Ieri come oggi, la sfida alla globalizzazione capitalista passa anche dalla risoluzione della questione sociale. Identitari e sovranisti, pertanto, non possono far altro che raccogliere l’eredità centenaria della Costituzione del Carnaro la quale, fungendo da faro di una sana azione politica, indicherebbe la via maestra nell’affrontare le battaglie per i diritti sociali e per la sovranità dell’uomo “intiero”.
Il titolo di questo brillante saggio breve è il frutto necessario di un travagliato periodo storico vissuto ancora oggi in prima persona da ciascuno nell’incertezza di una società liquida in balia delle onde del mare mentale. Rifacendosi all’inquadramento della radice di tutti i mali nell’attuale fase di metastasi del sistema internazionale, la forma dello Stato Nazione si presenta come problematica fin dalle radici medievali ponendosi in chiara antitesi alla Civiltà Imperiale. Il Nuovo Ordine Mondiale angloamericano non è altro che la sua speranza di sopravvivenza poiché nel sionismo l’unico cardine che si può ritrovare come sua antica paura è lo spettro del Sacro Ordine Imperiale in quella Vecchia Europa che corrisponde alla centralità geopolitica di tutta la globalizzazione tecnoeconomica.Le viscere della Tradizione Primordiale divampano come un fuoco rinnovato per salvaguardare di nuovo l’uomo dalle sue sciagure. È tempo di risvegliarsi e mettersi al servizio del Cielo andando oltre quei limiti indotti dallo schema politico illuminista della destra e della sinistra riportando in auge il significato più profondo della politica.L’intero volume è finalizzato ad individuare un modello politico di riferimento che renda attuabile ancora oggi la sacralità dell’imperium in attesa messianica di un imperatore planetario come il Kulika di Shambala e/o il Melchisedec di Salem, una prospettiva comparata fondata sulla visione di una teocrazia complessa che funga da fondamento costituzionale per la instaurazione di una nuova aristocrazia dello spirito.Il volume si interroga infine su come progettare il mutamento istituzionale a partire dall’elaborazione di una visione condivisibile, cercando di dare risposte concrete e stimoli per la generazione di un dibattito nuovo e ritenuto eretico da certi ambienti: una soluzione alla crisi europea e mondiale per una transizione verso la felicità.
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Il piano Colao assomiglia terribilmente alla deindustrializzazione finale del Paese.
Il capo della task force di tecnici assembrata da Conte, già membro del gruppo Bilderberg e ed ex amministratore delegato di Vodafone, ha raccomandato espressamente che le quote delle partecipate pubbliche, sia quelle statali che degli enti locali siano trasferite ad investitori privati.
Il contesto emergenziale sarebbe in questo caso la cartina di tornasole ideale per aggirare tutte le complesse procedure burocratiche da seguire per la vendita delle azioni delle imprese pubbliche.
Colao e il suo gruppo in queste righe che seguono, riprese dal capitolo dedicato alle partecipate, suggeriscono esplicitamente di rendere più agevole il processo di trasferimenti azionari delle partecipate, preparando così il terreno alle future dismissioni.
“Semplificazione delle procedure di vendita delle azioni (art. 10, comma 2), consentendo che la situazione emergenziale legittimi anche “l’alienazione mediante negoziazione diretta con un singolo acquirente.”
Le società pubbliche sono il tesoro ultimo dell’Italia, sono la residua ricchezza che è stata accumulata dal dopoguerra ad oggi grazie alla facoltà di avere una moneta sovrana e un modello economico radicalmente antitetico al paradigma ordoliberista che si sta seguendo scelleratamente dal 1992, anno dell’ingresso dell’Italia nell’UE, quando l’Italia sacrificò la sua valuta e la sua economia sull’altare dei parametri di Maastricht.
Ora il lento ed inesorabile processo di omicidio politico-economico di una nazione sembra volgere al termine.
Il patrimonio di un popolo e di una nazione sembra pronto ad essere consegnato ai rapaci fondi di investimento stranieri e alla grande finanza internazionale.
Ognuno potrà prendersi la sua fetta di torta in quella che potrebbe essere una messa all’asta dell’intero Paese.
Tutti i grandi gioielli rimasti in mano allo Stato, tra i quali Finmeccanica e le Ferrovie dello Stato e le partecipate degli enti locali che da tempo fanno gola ai fondi di investimento internazionali, soprattutto quelli cinesi che potrebbero accaparrarsi il redditizio settore dei trasporti locali, potrebbero passare in mani straniere.
Si pensi solo agli enormi profitti che una società straniera potrebbe ricavare, ad esempio, dalla gestione dell’ATAC, l’azienda comunale del trasporto locale a Roma.
Ma nelle dismissioni potrebbero confluire anche quote di aeroporti, porti e altre infrastrutture vitali e strategiche per l’economia nazionale.
Non sarebbe quindi solamente una privatizzazione di aziende pubbliche, ma sarebbe l’intero Paese ad essere privatizzato.
Tutto quanto sostanzialmente passerebbe a capitali esteri che si spartirebbero il bottino dell’Italia.
La stessa idea che possa ancora esistere una nazione di fronte ad un piano simile sarebbe messa in crisi, perchè tutto ciò che costituisce il suo apparato vitale sarebbe consegnato a gruppi stranieri che assumerebbero una posizione di assoluto monopolio nell’economia italiana.
Basti pensare a cosa potrebbe accadere se le Ferrovie dello Stato fossero gestite da un fondo sovranazionale.
Quel fondo avrebbe il potere di decidere i prezzi, ma anche il passaggio e gli orari nei quali si spostano i mezzi ferroviari.
Quel fondo gestirebbe una fetta importantissima del trasporto italiano. Potrebbero essere questi capitali a decidere come e quando viaggiano gli italiani.
Non sarebbe altro che una vera e propria occupazione del Paese, attuata in una forma silenziosa e ancora più subdola, senza essere accompagnata dall’usuale passaggio di cingolati che invece contraddistingue invece l’occupazione militare.
La deindustrializzazione dell’Italia decisa dal comitato dei 300
Quanto accadrebbe se il piano Colao dovesse diventare realtà non sarebbe altro che l’ultimo atto di un progetto iniziato in realtà molti decenni indietro, a partire almeno dagli anni’70.
John Coleman, ex agente del servizio segreto britannico MI6, denunciò già nel 1982 che cosa avevano in mente le grandi élite per il Belpaese.
Coleman raccolse le sue conclusioni in un libro intitolato “Il comitato dei 300” nel quale praticamente c’è tutto quello che è accaduto negli ultimi 35 anni in Italia.
Il destino del Paese era stato già deciso da questa potente organizzazione sconosciuta all’opinione pubblica italiana e internazionale ma che in realtà ha il potere di decidere il destino delle nazioni.
Questo gruppo ultraelitario costituito dalla grande finanza anglosassone e dalla finanza europea esiste almeno dal XVIII secolo e ne avrebbero fatto parte nel corso dei secoli personaggi politici di primissimo piano, come Winston Churchill, e famiglie tra le più potenti d’Europa e del mondo, tra i quali spiccano gli Agnelli e i Rothschild.
Secondo Coleman, è questa élite che gestisce altre importanti organizzazioni globaliste, come il famigerato gruppo Bilderberg al quale hanno partecipato Monti e lo stesso Colao come si è ricordato prima, e il Club di Roma fondato da Aurelio Peccei, già manager della FIAT e della Olivetti.
La morte dell’Italia è stata decisa da queste importanti figure che ne avevano decretato l’estinzione già negli anni’70.
Lo scopo di queste grandi famiglie è sostanzialmente quello di favorire la nascita di un governo unico mondiale che cancelli definitivamente la storia e il ruolo degli stati nazionali.
Il Club di Roma e il comitato dei 300 per arrivare a realizzare questo disegno dovevano necessariamente aggredire l’Italia, la sede della Chiesa Cattolica e quindi custode prediletta della fede e della tradizione cristiana.
La scristianizzazione assume un ruolo fondamentale in questo piano, perchè essa è intrinsecamente collegata alla storia delle nazioni.
Per arrivare alla fine delle seconde, bisogna necessariamente passare per la prima e i risultati sono stati conseguiti se si guarda al progressivo allontanamento da questa religione in Europa.
Moro ucciso perchè non voleva la morte dell’Italia
Un uomo si era già opposto a questo disegno criminale ed era Aldo Moro. Per Coleman, l’ex presidente della DC pagò con la vita la sua opposizione ai piani di queste élite.
Moro era fermamente contrario al depopolamento del Paese e voleva piuttosto una società con una piena occupazione fortemente industrializzata.
Il presidente sostanzialmente voleva il bene dell’Italia e non si poteva permettere che restasse in vita.
Scrive Coleman a questo proposito.
“Nella mia denuncia del 1982 di questo atroce crimine, ho dimostrato che Aldo Moro, un membro leale della Democrazia Cristiana, fu ucciso da assassini controllati dalla loggia massonica P2 con l’obbiettivo di portare l’Italia in linea con gli ordini del Club di Roma di deindustrializzare il Paese e ridurre considerevolmente la sua popolazione. I piani di Moro di stabilizzare l’Italia attraverso la piena occupazione e la pace politica e industriale avrebbero rafforzato l’opposizione cattolica al comunismo e reso la destabilizzazione del Medio Oriente – obbiettivo primario – molto più difficile.”
Senza lo smantellamento dell’Italia, sarebbe stato praticamente impossibile per questi gruppi globalisti arrivare al loro tanto agognato nuovo ordine mondiale.
E’ per questo che fu deciso l’omicidio dello statista della DC, già minacciato pesantemente da Kissinger, all’epoca segretario di Stato USA e membro del gruppo Bilderberg.
Corrado Guerzoni, storico collaboratore di Moro, rivelò in una testimonianza in un processo sulla morte dell’ex ministro degli Esteri, le minacce esplicite pronunciate da Kissinger contro di lui.
“O abbandona la sua linea politica, oppure la pagherà a caro prezzo.”
Il prezzo è stato pagato con il sangue di Moro ucciso dalle BR, pesantemente infiltrate dalla CIA, nel 1978.
Che si creda o no a Coleman, ha poca rilevanza.
Tutto quello che è accaduto dal’78 in avanti è stata una realizzazione di questo piano.
Negli anni successivi, è iniziato lo smantellamento del Paese.
Prima nel 1981 è stato tolto al ministero del Tesoro la facoltà di controllare la sua banca centrale, Bankitalia, con risultati disastrosi sui livelli del debito pubblico schizzati alle stelle per questa scellerata decisione presa da Andreatta, ministro del Tesoro all’epoca, e Ciampi, governatore di Bankitalia.
Poi è iniziata la prima ondata di svendite del patrimonio pubblico industriale realizzata da Romano Prodi divenuto presidente dell’IRI nel 1982.
Successivamente nel 1992 c’è stato il grande e quasi definitivo saccheggio delle grandi industrie di Stato eseguito a bordo del panfilo Britannia della Regina Elisabetta, la leader del comitato dei 300 secondo Coleman, officiato da Mario Draghi, allora dirigente del ministero del Tesoro.
Da allora c’è stato l’ingresso in Maastricht, l’adozione dell’euro e la perdita definitiva della sovranità monetaria.
I risultati sono stati appunto quelli di una massiccia deindustrializzazione come mai vista prima nel Paese.
I piani del comitato dei 300 sono stati eseguiti alla perfezione. Ma per arrivare al loro compimento definitivo occorre il colpo di grazie e la disgregazione finale del tessuto economico dell’Italia.
Il piano Colao è la chiusura del cerchio di questo progetto. E’ l’ultimo passo per drenare la nazione delle sue ultime risorse e consegnarla interamente nelle mani della finanza internazionale e dei potentati stranieri.
La realizzazione del nuovo ordine mondiale passa inevitabilmente per la fine dell’Italia.
Più accelera la seconda, più si avvicina il primo.
Si è quindi alle battute finali di un disegno diabolico e criminale perpetrato grazie ad una classe di politicanti traditori della propria nazione completamente corrotti e asserviti a questi poteri.
Il piano probabilmente riuscirà, ma l’auspicio è che chi ha procurato tanto male sia chiamato a risponderne prima o poi.
Il male ha un inizio ma avrà anche inevitabilmente una sua fine. Finché esisteranno italiani nel Paese e in giro per il mondo orgogliosi delle loro origini e della loro storia, ci sarà una possibilità un giorno, si spera non troppo remoto, di ricominciare.
Questi italiani sono la speranza per ricostruire tutto quello che è stato distrutto negli ultimi 40 anni.
Ogni film ha un «contenuto ideologico». E’ l’insieme delle idee, delle opinioni e delle valutazioni che esso trasmette, in relazione agli argomenti trattati. Narrando un fatto, un film prende sempre posizione: lui è buono e l’altro è cattivo; questo è giusto e quello è sbagliato; ciò è bene e ciò è male. Inoltre, narrando un fatto, c’è sempre una coreografia di oggetti e personaggi e uno sfondo di situazioni e di avvenimenti; questi sono stati oggetto di una scelta in genere precisa: viene deciso non solo ciò che si vede, e in che termini, ma anche ciò che non si vede.
Non necessariamente l’Autore opera tali scelte di proposito; in genere è così, perché si tratta di professionisti che sanno quello che fanno, ma questo è il risultato di ogni narrazione umana, sotto qualunque forma eseguita: dietro ogni topica c’è una presa di posizione e ci sono delle esclusioni. Il contenuto ideologico è più evidente nei film che trattano di politica, di guerra, di spionaggio e di fatti storici.
Il contenuto ideologico non riguarda solo grandi temi, sociali, politici o storici, e non riguarda solo idee normalmente oggetto di dibattito: come detto, ogni film ha un contenuto ideologico, che in genere riguarda la quotidianità. L’uomo che spende tanto tempo ed energie per conquistare la sua amata presuppone che così si debba fare, opinione non condivisa in vaste parti del mondo. Analogamente per l’uomo che lavora otto ore al giorno in una organizzazione, e la cui vita è predeterminata al minuto. La donna che armeggia in cucina con tanti elettrodomestici li rende scontati.
Sin qui siamo rimasti nell’ambito del contenuto ideologico avvertibile, sia pure in qualche caso a fatica. In moltissimi film sono poi stati inseriti – e sono inseriti – dei messaggi subliminali. La tecnica subliminale è nata quando si sono fatte le seguenti scoperte: che l’inconscio umano esiste; che percepisce ogni informazione che oltrepassa gli organi di senso, anche se per qualche motivo la coscienza non la avverte; che la elabora in modo meccanico, predeterminato e acritico; e infine che il risultato di tale elaborazione influenza il soggetto, anche se costui non se ne accorge.
Questo campo di indagine fu aperto da Freud, lo scopritore dell’inconscio; continuato negli anni Trenta da molti altri, fra psicanalisti, psicologi, psichiatri, sociologi e specialisti della comunicazione e della pubblicità commerciale e politica; e enormemente sviluppato negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale per migliorare l’efficacia della propaganda.
Un messaggio subliminale in un film è dunque un’immagine o una breve scena apparentemente innocua, sulla quale la coscienza non si sofferma, ma che l’inconscio afferra ed elabora in un modo previsto, influenzando quindi il pubblico a sua insaputa.
Se è chiaro che finita la pandemia da CoViD-19 gli abbracci non scompariranno, la stretta di mano potrebbe venire rimpiazzata per sempre da altri saluti meno “rischiosi”.
Decisa, sudata, molliccia… Ha molte sfaccettature, la stretta di mano, un gesto di saluto quasi globale e bandito dall’inizio della pandemia da CoViD-19. Le sue origini risalgono a migliaia di anni fa, e denotano l’intrinseca socialità dell’uomo. «Il fatto che ora, per evitare il contagio, ci siamo inventati il saluto “gomito contro gomito” dimostra l’importanza che diamo al contatto», spiega Cristine Legare, professoressa di psicologia all’Università del Texas a Austin.
Il contatto con il prossimo non è sempre stato di vitale importanza (o, perlomeno, c’è stato un periodo in cui non era ben visto): nella prima metà del XX secolo, molti psicologi erano convinti che i gesti d’affetto potessero trasmettere malattie ai bambini e causare loro problemi psicologici in età adulta.
Negli anni Venti del Novecento, l’American Journal of Nursing pubblicò diversi articoli che mettevano in guardia dalle strette di mano, veicoli di batteri, consigliando agli statunitensi di adottare l’usanza cinese di giungere le proprie mani in segno di saluto.
Il saluto romano, così detto perché in passato fu ritenuto derivare da una tradizione dell’antica Roma, è una forma di saluto utilizzata in varie parti del mondo nel periodo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, che prevede il braccio destro alzato di circa 135 gradi rispetto all’asse verticale del corpo con il palmo della mano rivolta verso il basso e le dita unite.
La cinematografia e la tradizionale iconografia hanno diffuso altri tipi di gesti di saluto: il saluto detto legionario che consiste nel battere il pugno o la mano destra tesa sul petto (usato in parte ancora oggi in certe forme di “presentat’arm” militare), e il saluto detto gladiatorio, consistente nell’affiancare l’avambraccio destro di chi saluta a quello di chi si vuol salutare e scambiarsi una reciproca stretta al di sopra del polso.
Insomma, finita la pandemia torneremo a stringerci le mani o sarà un buon motivo per smettere di farlo per sempre?
Anthony Fauci, immunologo in prima linea nella task force ingaggiata dal governo Trump, ha le idee chiare: «A essere sincero, penso che non dovremmo tornare mai più a stringerci le mani», afferma.
Cambio di passo per il settore primario. Riforme nel marketing agricolo, nella gestione delle eccedenze commerciabili, nell’accesso degli agricoltori al credito istituzionale e nel sostegno legislativo per garantire adeguato valore all’interno della filiera ai contadini.
L’India prepara una rivoluzione in agricoltura, con un piano di riforme che gli esperti sostengono essere il più impattante degli ultimi decenni, destinata a incidere sul futuro dell’intero sub-continente indiano e sulla vita di milioni di agricoltori. Nei giorni scorsi il primo ministro indiano Narendra Modi ha iniziato una riflessione su quali risposte attende il mondo agricolo, alla luce del lockdown da Covid-19. Ne ha parlato con gli stakeholder e ha un piano articolato da attuare.
Al centro dell’attenzione saranno poste riforme nel marketing agricolo, nella gestione delle eccedenze commerciabili, nell’accesso degli agricoltori al credito istituzionale e nel sostegno legislativo per garantire adeguato valore all’interno della filiera ai contadini.
L’uso della tecnologia è considerato dal primo ministro Modi strategico e come parte della soluzione, se si vuole migliorare la competitività del settore. Già in queste fasi caratterizzate dal Covid-19 è stata lanciata una app per aggregare i trasporti di materie prime agricole, tenuto anche conto che i mercati erano stati chiusi o ha funzionato un gruppo Whatsapp per la vendita dell’ortofrutta.
Per il ministro dell’Agricoltura, Narendra Singh Tomar, nel 2019 il settore è cresciuto del 3,7% e quest’anno, nonostante le circostanze avverse, crescerà del 3% circa. Tuttavia, per un paese come l’India, è poco.
In un’intervista rilasciata nei giorni scorsi ai media indiani, Tomar è convinto che le riforme nel suo complesso “daranno un grande contributo al settore, e mi aspetto che il settore primario segnerà un tasso di crescita del 4,5% nei prossimi tre anni del Pil”. Una crescita già accettabile per rispondere ai bisogni della società, soprattutto considerato la conformazione del settore.
Il gigante indiano è costellato da milioni di aziende agricole a conduzione familiare, collocate nella seconda più grande superficie arabile del mondo, situata in quindici zone agro-climatiche. Le piccole aziende – con una superficie inferiore ai due ettari – costituiscono l’86,21% delle proprietà terriere totali nel paese. Tale struttura non solo non consente agli agricoltori di avere un reddito sufficiente o sostenibile, ma è anche molto dannosa per la produttività complessiva perché più piccolo è l’agricoltore, minore il capitale, la sperimentazione di colture, semi, uso dell’acqua, fertilizzanti.
Il cambio di passo dell’agricoltura indiana dovrebbe dunque passare dal rafforzamento dell’ossatura, grazie alla creazione di Organizzazioni di produttori, cooperative, forme di aggregazione chiamate a favorire la vitalità dell’economia agraria, la trasparenza nel commercio agricolo e consentire i massimi benefici agli agricoltori.
Una riforma organica che dovrebbe rispondere anche al tema della manodopera. Il fabbisogno di manodopera in agricoltura e lungo la filiera è piuttosto alto, tenuto conto della scarsa meccanizzazione. L’introduzione di nuove tecnologie dovrebbe modificare il mercato del lavoro, aprendo a una fase nuova. Contemporaneamente, anche l’export è oggetto di attenzione, sia per le peculiarità dell’agricoltura indiana, caratterizzata da una vasta fascia geografica produttiva, sia per le opportunità che una rinnovata logistica, rafforzata da catene del freddo efficienti, infrastrutture meglio collegate fra loro e nuove occasioni commerciali possono offrire.
La crisi innescata dalla pandemia, con il lockdown imposto dal governo agli indiani, ha messo in evidenza le potenzialità del colosso indiano in agricoltura, denunciando allo stesso tempo alcune storture, come ad esempio di divieto di commercializzare i prodotti da uno Stato indiano all’altro. La catena degli approvvigionamenti è stata decisamente rallentata, ma ha saputo comunque funzionare, anche se talora a singhiozzo.
L’agricoltura ha risposto alla prova, soddisfacendo alle esigenze delle città, e benché alcuni segmenti produttivi siano entrati in difficoltà (in particolare l’ortofrutta e il latte), per effetto prevalentemente delle chiusure di moltissimi mercati locali a scopo cautelativo. Per alcuni aspetti, l’offerta dei prodotti agricoli indiani è eccedentaria in questa fase e ci si aspetta che, per effetto di un’ondata di disoccupazione innescata dal Covid-19, i consumi interni seguiranno una curva discendente, offrendo però la possibilità alternativa di esportare come antidoto all’avvitamento negativo dei prezzi e alle chiusure di bar, ristoranti, hotel, mense, ostelli.
Ad oggi l’export agricolo (38 miliardi di dollari nel 2018) è ancora marginale, rappresenta poco più dell’11% delle esportazioni totali dell’India e poco meno del 2,5% del commercio agricolo mondiale, secondo i dati riportati in un’analisi pubblicata recentissimamente da Pravesh Sharma. Servono, secondo gli analisti, politiche mirate e proattive a sostegno dell’export, affrontando la competitività dei mercati globali con la forza della sicurezza alimentare, della tracciabilità, della qualità delle produzioni.
La proposta di riforma sostenuta anche dal ministro delle finanze dell’Unione, Nirmala Sitharaman, si poggia su un pilastro giudicato essenziale: i contratti in agricoltura, che permetterebbero di assicurare maggiore prosperità agli agricoltori, lasciando una maggiore libertà di scelta delle colture. I contratti di filiera sono visti anche come soluzione per fermare i suicidi degli agricoltori e per ovviare a una delle grandi problematiche dell’agricoltura indiana: la mancanza di diversificazione delle colture. Oggi infatti, le decisioni degli agricoltori sono dettate dalle politiche del Governo sui prezzi minimi di sostegno, che sono maggiormente orientate verso le colture alimentari. Questo ha danneggiato la biodiversità, orientando i produttori verso le colture maggiormente remunerate, come grano o riso, finalizzate al garantire cibo alla popolazione. Con la possibilità di sottoscrivere contratti gli agricoltori potranno coltivare anche qualsiasi altra coltura non alimentare, purché ottenga lo stesso prezzo o più alto.
La Camera di commercio indiana esorta gli Stati ad attuare le riforme agricole nell’interesse dei produttori, affermando che la proposta di modifica dell’atto sulle materie prime essenziali, che consente agli agricoltori di ottenere il miglior prezzo per i loro prodotti sui mercati (locali, nazionali o globali), è uno spartiacque nella storia economica dell’India in quanto rimuove la disintermediazione e lascia il mercato all’agricoltore.
Dopo tre anni di quiete, tornano le tensioni in diverse zone dell’enorme confine conteso tra Pechino e Nuova Dehli. Costruzioni militari, scontri e ammassamento di truppe, mentre Trump prova ad arruolare Narendra Modi nella contesa contro la Repubblica Popolare
“Il dragone cinese e l’elefante indiano non combatteranno più tra di loro, ma danzeranno”. Era il 2018 quando Wang Yi, il ministro degli Esteri di Pechino, dichiarava chiusa la crisi del Doklam e proiettava i rapporti con Nuova Dehli su una nuova dimensione. Due anni dopo, però, quella danza sembra essere più un difficile lavoro di equilibrismo col rischio di cadere giù. Sono ormai settimane che Cina e India sono coinvolte in un teso confronto tra militari in più punti dell’enorme confine (circa 3500 chilometri), in parte conteso. Costruzioni, manovre e incursioni reciproche sono già sfociate in scontri e (molto probabilmente) presa di prigionieri. E, mentre Donald Trump prova a sfruttare l’occasione per arruolare Narendra Modi contro la Cina in un G7 allargato, i rapporti tra i due giganti d’Asia rischiano di precipitare ai minimi dopo decenni di relativa tranquillità. In un momento nel quale la Cina ha diversi grattacapi con i suoi “vicini di casa”.
I CONFINI CONTESI
Quella tra Cina e India è una contesa territoriale che ha più di un secolo, sin dalla linea McMahon tracciata nel 1914 e non riconosciuta da Pechino perché frutto di un accordo tra il Tibet autonomo e l’India britannica, con cessioni di una parte importante di territorio da quella che sarebbe poi diventata una regione autonoma della Repubblica Popolare. Una contesa che riguarda diverse aree. In primis l’Aksai Chin, regione montuosa del Kashmir in mano alla Repubblica Popolare dalla guerra sino-indiana del 1962, nella quale sono morti circa duemila soldati. Si tratta di un’area montuosa che funge da strategico collegamento tra Tibet e Xinjiang e che Nuova Dehli continua a rivendicare come parte del Ladakh, una delle divisioni dello stato di Jammu e Kashmir. Non solo. L’Aksai Chin ha un’altra porzione di territorio ceduta nel 1963 alla Cina dal Pakistan e che funge da cuscinetto tra Xinjiang e l’entità autonoma del Gilgit-Baltistan, controllata da Islamabad.
La coda allungata dell’Aksai Chin tocca anche la zona strategica del lago himalayano Pangong Tso, che dal territorio indiano arriva a toccare il principale snodo stradale del Tibet. Il tutto dopo essere passata anche a toccare altri due stati indiani, l’Himachal Pradesh (dove col benestare di Nuova Dehli risiede, nella città di Dharamsala, il Dalai Lama fuggito dal Tibet dopo l’arrivo di Mao nel 1950) e l’Uttaranchal. Scendendo a sud est, invece, si trovano altre due aree dove la tensione è alta. La prima è quella del Sikkim, incastonato tra Nepal e Bhutan ed entrato a far parte dell’India nel 1975 con un referendum. La seconda, andando ancora più verso oriente dopo il Bhutan, è quella dell‘Arunachal Pradesh, stato controllato dall’India ma rivendicato da Pechino.
Su tutte queste zone si sono vissuti a più riprese momenti di tensione per contese mai risolte. L’ultima delle quali era datata estate 2017, quando per le rispettive truppe si sono fronteggiate per due mesi sull’altopiano di Doklam, collocato in un’area a cavallo tra India, Cina e Bhutan. Un confronto nato per la costruzione di una strada da parte dei cinesi, che gli indiani reputavano sorgere sul territorio bhutanese.
I NUOVI SCONTRI
Dopo quasi tre anni di calma le tensioni sono però tornate. Tutto nasce da movimenti contrapposti, che hanno preso il via con la realizzazione di una strada sul passo di Lipulekh, nei pressi di un’area contesa tra India e Nepal. India che ha iniziato anche costruzioni militari dal suo lato di confine nel territorio di Ladakh. Nuova Dehli è particolarmente attiva negli ultimi mesi nell’area, con l’allestimento di nuove infrastrutture e in particolare di una strada ad alta quota che sfiora uno dei luoghi in cui si sono verificati scontri nel 2013 e di un tunnel. Opere volte a favorire il movimento delle truppe lungo il confine conteso e che ha dunque messo in allarme la Cina, i cui militari avrebbero invece, secondo fonti indiane, sforato oltre la linea di controllo “distruggendo postazioni e ponti”. Fino a toccare la valle del fiume Galwan, che finora non era stata oggetto di dispute.
Se in questa porzione le truppe di Nuova Dehli sembrano aver guadagnato posizioni a livello strategico e rappresenterebbero un ostacolo considerevole per quelle di Pechino, i cinesi sono, secondo diversi analisti, in netto vantaggio nelle altre due sezioni contese, il Sikkim e l’Arunachal Pradesh. Ed è proprio qui che, specularmente a quanto accade più a nord ovest, l’India guarda con attenzione le manovre delle truppe cinesi al confine. Con Pechino che, sempre specularmente a quanto accade tra Ladakh e Aksim Chin, accusa Nuova Dehli di aver eretto “strutture illegali” di difesa e di aver travalicato la linea di controllo.
Manovre reciproche che hanno portato a una serie di confronti, a partire dal 5 maggio, quando due contingenti si sono scontrati nella zona del lago Pangong Tso a suon di schiaffi, pugni e lancio di pietre. Tre giorni dopo, un secondo confronto al passo di Naku La, nel Sikkim, con le truppe indiane che hanno fermato una pattuglia cinese in perlustrazione.
Non è chiaro quanti militari siano coinvolti nel confronto, anche se l’India sostiene che tutto nasca proprio dallo schieramento di un numero eccessivo di truppe (secondo alcune informazioni sarebbero cinquemila) in corrispondenza del lago Pangong Tso da parte della Cina. Continua a essere rispettato il patto di non aprire il fuoco, che regge dal 1975 e i due governi continuano a ripetere che la situazione è “stabile e sotto controllo“. Ma le preoccupazioni che erano cominciate già dalla revoca dell’autonomia del Kashmir da parte dell’India, che aveva portato a una pericolosa escalation con il Pakistan, sono in aumento.
LE RELAZIONI PERICOLOSE TRA CINA E INDIA
Ma c’è anche chi ritiene che la reazione cinese di fronte alle costruzioni indiane sia motivata anche da motivi geopolitici e diplomatici. Quasi di avvertimento per dire di non schierarsi con gli Stati Uniti, che stanno provando ad arruolare Nuova Dehli nella sua contesa globale con Pechino. Un’impresa difficile, vista la sua posizione tradizionalmente non allineata, che però rappresenta il più immediato e vero spauracchio dell’ascesa cinese. L’India non ha mai visto di buon occhio la Via della Seta, il progetto del PCC considerato da Modi come un’invasione di campo non solo infrastrutturale ma anche diplomatica nella sua tradizionale sfera di influenza regionale. Basti pensare a che cosa è successo in Sri Lanka e al porto di Hambantota, o agli investimenti nelle Maldive. O in Nepal, dove Xi Jinping è stato per una storica visita negli scorsi mesi. Senza contare l’alleanza tra Cina e Pakistan, dove il porto di Gwadar (terminale del corridoio sino-pakistano che parte dalla città di Kashgar nello Xinjiang) può diventare una spina nel fianco per l’India e trampolino di lancio per l’estroversione cinese, consentendo di aggirare lo stretto di Malacca. Nonostante i ripetuti inviti, Modi non ha partecipato all’ultimo forum Belt and Road di aprile 2019 a Pechino.
Rispetto ad altri paesi asiatici, l’India non è assimilabile nel progetto cinese, né sinizzabile. I due summit, nel 2018 e nell’ottobre 2019, tra Xi e Modi hanno rilassato i rapporti ma il grande rilancio a cui si puntava non è mai avvenuto. Nuova Dehli si è invece avvicinata molto al Giappone, altro rivale strategico di Pechino. E la pandemia non ha fatto che accelerare alcuni processi in atto, come per esempio la ricerca dell’autosufficienza da parte indiana, che mal sopporta l’immenso surplus commerciale della Repubblica Popolare nei suoi confronti. Non sarà semplice, se si considera la grande dipendenza dal mercato cinese in alcuni settori cruciali: il 90% dell’import dei farmaci salvavita arriva da lì, così come l’80% dell’equipaggiamento medico e il 30% delle componenti per auto.
Negli scorsi giorni, il Global Times ha pubblicato diversi articoli in cui avverte l’India di non schierarsi con Washington in una nuova guerra fredda. E la tensione, da strategico-militare rischia di diventare anche economica e diplomatica, come dimostra lo stop all’import di carne suina indiana introdotto da Pechino. Dall’altra parte, l’India è invitata a entrare in una sorta di alleanza anti Huawei sul 5G e alcuni esponenti del Bjp (il partito di maggioranza) che si sono esposti per l’inclusione di Taiwan all’assemblea dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Con il Partito Comunista che minaccia conseguenze per le imprese e i produttori indiani. Donald Trump si è persino offerto di mediare tra i due contendenti sul tema del confine conteso (offerta per ora respinta da entrambi i governi) e, come detto, vuole includere Nuova Dehli nel G7 allargato dopo l’estate.
Complicato che il G11 trumpiano vada in porto, ma intanto truppe e artiglieria continuano ad ammassarsi lungo il confine conteso tra Cina e India. Dragone ed elefante stanno conducendo una danza rischiosa.
Non solo lo scontro con l’altra superpotenza, gli Stati Uniti. La strategia China Exit di Tokyo, gli scontri lungo il confine conteso con New Dehli, le tensioni marittime con Hanoi e la trade war con Canberra: Pechino deve affrontare anche delle sfide regionali con i suoi “vicini di casa”.
Gli Stati Uniti, certo. Ma la Cina ha qualche noia diplomatica anche più vicina. Giappone, India, Vietnam e Australia sono tutte coinvolte in maniera più o meno diretta in dispute con Pechino. E se nei rapporti bilaterali l’Impero Celeste può sempre far valere il suo maggiore peso in termini economici e geopolitici, mettere insieme tutti questi nodi può far sì che si crei un groviglio quasi inestricabile proprio sull’uscio di casa.
COREE PIU’ VICINE
Sarebbe sbagliato dire che la pandemia da coronavirus ha pregiudicato la diplomazia cinese in Asia. Anzi, in alcuni casi è vero il contrario. Con la Corea del Sud i rapporti sono in costante miglioramento: Moon Jae-in, il cui partito ha appena stravinto le elezioni legislative dello scorso 15 aprile, è un fautore del consolidamento dei rapporti con Pechino, anche e soprattutto nell’ottica Pyongyang. Con la “ritirata” americana dall’Asia orientale, al di là delle scenografiche camminate di Donald Trump nella zona demilitarizzata, appare ormai evidente a Seoul che per andare verso una normalizzazione dei rapporti con la Corea del Nord bisogna rivolgersi a Xi Jinping. E la cooperazione sanitaria da Covid-19 dimostra che i due governi intrattengono un costante dialogo.
NUOVO IMPULSO ALLA VIA DELLA SETA NEL SUD EST
La Via della Seta non ha subito particolari rallentamenti, anche perché coi paesi che ne fanno parte di problemi diplomatici, almeno per il momento, non ce ne sono. Nelle scorse settimane sono ripartiti i lavori della linea ferroviaria tra Cina e Laos, un progetto colossale che avrebbe come suo termine finale Singapore, dopo essere passata anche per la Thailandia. Il primo ministro della Cambogia, Hun Sen, si è recato in piena epidemia a Pechino per mostrare la sua vicinanza politica al grande vicino. Numerosi contatti istituzionali con le Filippine, che con Rodrigo Duterte hanno intrapreso una linea più amichevole verso Pechino (anche se proprio negli ultimi giorni si è registrato un riavvicinamento per certi versi storico tra Manila e Hanoi per risolvere le dispute marittime). Rafforzate le relazioni anche con Myanmar. Negli scorsi giorni Xi ha parlato al telefono con il presidente birmano U Wint Myint e la cooperazione prosegue anche sul piano militare nelle movimentate zone di confine.
LE AMBIZIONI MARITTIME E COMMERCIALI DEL VIETNAM
Per ogni rosa però c’è anche una spina. A creare qualche pensiero a Pechino c’è il Vietnam. Hanoi ha saputo contenere in modo molto efficace il coronavirus, tanto da non registrare nemmeno un decesso ufficiale. E, nonostante sui media occidentali se ne sia parlato molto meno, ha anch’esso lanciato una piccola campagna diplomatica di aiuti sanitari, con l’invio di mascherine anche verso l’Italia. Il Vietnam è stato uno dei primi paesi al mondo, insieme all’Italia, a chiudere i collegamenti aerei diretti con la Cina, e vive un momento di tensione con Pechino. Attriti presenti da diversi decenni e che ruotano intorno alle acque e isole contese nel Mar cinese meridionale. Il governo vietnamita ha rigettato il divieto di pesca imposto dal 1° maggio al 16 agosto dalla Cina nell’area delle isole Paracelso e ha invitato i suoi pescatori a ignorarlo e proseguire le attività. Tale assertività deriva in parte anche dalla presidenza di turno dell’Asean, che appare invece ancora in larga parte spaccato sull’approccio da prendere nei confronti dell’estroversione cinese, con tanti paesi consapevoli del legame economico che non può essere spezzato senza gravi conseguenze, soprattutto in un’epoca post Covid dove la direzione intrapresa sembra essere quella di una slowbalisation regionalizzata. Il Vietnam spera in realtà di diventare quello che in parte è già, un grande hub commerciale dell’area del Sud Est. Anche grazie alle delocalizzazioni dalla Cina. Obiettivo che potrebbe essere favorito dalle politiche del Giappone.
IL COVID-19 RALLENTA LA DIPLOMAZIA PECHINO-TOKYO
I rapporti tra Pechino e Tokyo hanno subito un improvviso rallentamento a causa della pandemia, anche perché il governo di Abe Shinzo ha dimostrato di avere velleità geopolitiche sconosciute, per esempio, alla Corea del Sud. Il Covid-19 ha portato al rinvio della visita programmata di Xi nella capitale nipponica, in quella che sarebbe dovuta diventare una celebrazione del grande riavvicinamento tra i due colossi dell’Asia orientale. Così non è andata, e per ora non c’è ancora una nuova data per l’evento, mentre sul fronte interno cresce il fronte di chi vi guarda con perplessità. Il governo Abe ha avviato una aggressiva politica di “China exit”, con pacchetti di stimoli dedicati alle imprese per sostenerne il “ritorno a casa” o comunque la delocalizzazione in altri paesi asiatici. L’obiettivo dichiarato è quello di avere una maggiore autosufficienza sia in campo sanitario sia in campo tecnologico, anche per evitare eventuali nuove restrizioni di Washington sui prodotti made in China.
TRA SENKAKU E FIVE EYES
Ma con il Giappone le contese sono anche strategiche. C’è sempre il nodo irrisolto delle isole Senkaku (o Diaoyu come le chiamano in Cina), con le rispettive navi che si sono incrociate nelle acque limitrofe nelle scorse settimane. Senza dimenticare il progressivo avvicinamento dei servizi segreti nipponici al Five Eyes, l’unione delle intelligence anglofone. Operazione condotta, ufficialmente, per avere informazioni sulla Corea del Nord e contenere Pyongyang con maggiore efficacia. Ma in realtà, secondo alcune fonti riportate di recente dal South China Morning Post, le discussioni riguarderebbero anche la Cina. E Tokyo, che ha più volte citato Taiwan chiedendone l’inclusione nell’assemblea Oms, ha chiesto chiarimenti all’ambasciatore cinese dopo l’annuncio della volontà di approvare una legge di sicurezza nazionale per Hong Kong.
TENSIONI AL CONFINE CON L’INDIA
Chi di sicuro ha contese territoriali irrisolte con Pechino è l’India, l’altro colosso asiatico. Nuova Dehli rappresenta, sin dall’inizio, uno scoglio al progetto della Belt and Road di Xi. Inassimilabile e storicamente impossibile da sinizzare, l’India rappresenta un ostacolo da aggirare, come dimostra la strategia cinese sul porto pakistano di Gwadar. Pechino e Nuova Dehli condividono un lungo e frastagliato confine che dal Sikkim arriva al Jammu e Kashmir passando per l’Himachal Pradesh. E che tocca sempre l’immenso territorio della regione autonoma del Tibet. È lungo questa frontiera montuosa che nelle scorse settimane si sono verificati diversi scontri tra truppe militari. Non a fuoco, per fortuna, ma a colpi di pugni e sassate. Con un bilancio provvisorio di 11 feriti ma soprattutto di tanta, tantissima tensione, in particolare al Pangong Tso, strategico lago dalla forma allungata che dal sud della città indiana di Ladakh arriva a lambire la principale arteria stradale tibetana. È qui che Nuova Dehli guarda con sospetto ai movimenti cinesi. Mentre dall’altra parte non hanno apprezzato la recente costruzione di una nuova strada al confine con il Nepal.
LA DIFFICILE AUTOSUFFICIENZA INDIANA
Il tema è molto sentito, tanto che anche la Casa Bianca è intervenuta schierandosi, ça va sans dire, con l’India. Nel frattempo, il primo ministro Narendra Modi ha presentato un piano economico per la ripresa che intende stimolare la produzione locale e limitare la dipendenza dalla Cina per le catene di approvvigionamento. Impresa non semplice, se si considera che il 90% dell’import dei farmaci salvavita arriva da lì, così come l’80% dell’equipaggiamento medico e il 30% delle componenti per auto. Dipendenza che si riscontra anche in tanti altri settori. Ad aggiungere qualche motivo di frizione diplomatica con New Dehli, anche l’appoggio esplicito a Taiwan dato da alcuni politici del Bjp, con il Times of India e l’Economic Times (due tra i principali quotidiani indiani) che hanno chiesto al governo passi del governo per l’inclusione di Taipei all’assemblea dell’Oms.
LA GUERRA COMMERCIALE CON L’AUSTRALIA
Ma c’è anche chi rischia di sprofondare, o forse è già sprofondato, in una vera e propria guerra commerciale con la Cina. Si tratta dell’Australia, tra i primi paesi a chiedere un’indagine internazionale sulle origini del Covid-19. Mossa non gradita al governo cinese, che ha imposto tariffe dell’80,5% sull’import di orzo (già crollato da 1.7 miliardi di dollari a 600 milioni tra 2018 e 2019), e sospeso quello di carne di manzo. Ma si starebbe pensando anche di disincentivare l’import di pesce, vino e latte. L’ambasciatore Cheng Jingye ha paventato anche un boicottaggio di turisti, studenti e consumatori. Contromisure che possono fare male, se si considera che Pechino è di gran lunga il primo partner commerciale per l’Australia, dove gli studenti e turisti cinesi rappresentano il 38% e il 15% del totale. Lo scontro è proseguito anche dopo l’assemblea dell’Organizzazione mondiale della sanità, durante la quale oltre 100 paesi hanno chiesto un’indagine internazionale sull’origine del virus e la Cina ha aperto a un’inchiesta a guida Oms a crisi terminata, ridicolizzando poi Canberra che rivendicava il risultato. Eppure il coinvolgimento, per ora solo “nominale”, dello stato del Victoria nella Belt and Road ha creato delle frizioni con Washington, tanto che Mike Pompeo ha detto che potrebbe essere a rischio la condivisione di alcune informazioni sensibili con l’Australia se la partnership si concretizzasse.
LE MIRE CINESI NEL PACIFICO
A peggiorare i rapporti, le recenti esercitazioni congiunte tra i militari americani e australiani nel Mar cinese meridionale, mentre il governo di Scott Morrison guarda con sospetto al tentativo di China Mobile di comprare Digicel, il principale network telefonico degli stati del Pacifico. Una situazione che ricorda un po’ quella di qualche anno fa sui cavi sottomarini alle Isole Salomone. Allora l’Australia ebbe la forza di rilanciare l’offerta cinese, senza comunque evitare il recente passaggio diplomatico di Honiara dalla parte di Pechino e la rottura dei rapporti con Taiwan. Passo compiuto subito dopo anche da Kiribati, arcipelago di cui l’isola Christmas dista solo poco più di duemila chilometri da Honolulu, sede del Pacific Command degli Stati Uniti. E qui si completa il giro, arrivando fin quasi sull’uscio di casa dell’altra superpotenza.
Di Lorenzo Lamperti*
**Giornalista responsabile della sezione “Esteri” del quotidiano online Affaritaliani.it. Si occupa di politica internazionale, con particolare attenzione per le dinamiche geopolitiche di Cina e Asia orientale, anche in relazione all’Italia
I funzionari del Dipartimento di Giustizia USA stanno indagando se “Attori criminali” stiano fattivamente coordinando le attività violente durante le proteste per la morte di George Floyd. Molto interesse viene posto nella verifica delle notizie secondo le quali mucchi di pietre e mattoni siano stati predisposti nelle zone in cui si dovevano tenere le proteste contro la polizia ed il suo operato.
“Abbiamo visto numerosi indizi … Stiamo cercando di verificare se esiste un centro vero e proprio centro di comando e un controllo. Seguiamo ogni “Briciola di pane” per verificare i fatti”, ha detto un funzionario del DOJ. mentre un altro funzionario del DOJ ha affermato che gli agenti federali hanno visto segni di un coordinamento molto ben organizzato fatto da agenti provocatori professionisti strettamente legati al movimento Antifa.
In tutti gli USA ci sono stati 10 mila fermi durante le manifestazioni contro le violenze della polizia. Intere vie di Soho a New York o dei centri di altre città sono state saccheggiate in modo sistematico, negozio per negozio, un’attività che non può essere casuale, ma appare organizzata come riferito anche da molti testimoni.
Secondo Fox News, i funzionari del Dipartimento di Giustizia sperano di trovare strumenti con i quali sfruttare i dati degli smartphone telefoni in modo da poter provare i contatti e risalire verso chi coordina i movimenti ed i saccheggi. Gli agenti federali ritengono che i social media siano pesantemente utilizzati per dirigere il movimento di rivoltosi e saccheggiatori, ma questo permetterebbe agli investigatori di identificare i percorsi digitali e quindi , a ritroso, di trovare il centro di controllo.
Inutile dire che molti americani credono che “Antifa” sia alla base di gran parte della violenza viste in questi giorni, e un nuovo sondaggio condotto dai Rasmussen Reports ha rilevato che il 49% di tutti gli elettori statunitensi ritiene che questo gruppo anarchico debba essere dichiarato organizzazione terroristica.
Secondo le linee tracciate assisteremo ad una completa riconversione del nostro sistema produttivo e alla distruzione del suo tessuto fatto di micro, piccole e medie imprese. Sarà favorito l’accorpamento aziendale ai grandi gruppi, ai quali sarà concesso per operazioni di fusioni e acquisizioni una deducibilità del 120% sulle tasse, mentre alla ricerca e all’innovazione gestite da questi trust sarà garantita una deducibilità del 200%.
Il sostegno al nuovo impianto dell’economia sarà garantito da un “Fondo per lo sviluppo” al quale lo Stato, le regioni, le province e i comuni tutti conferiranno immobili, partecipazioni in società quotate e titoli. È prevista inoltre la possibilità di attingere a parte delle riserve auree di Bankitalia. Tutta l’operazione sarà quindi sostenuta con l’intero patrimonio pubblico del paese e a garantirla ci sarà Cassa Depositi e Prestiti con i suoi capitali, quelli costituiti dai Buoni fruttiferi e dai Libretti postali dei cittadini italiani.
Ormai è chiaro che voglio la normalizzazione dello stato di emergenza. Con la privazione delle nostre libertà individuali è in atto un’eversione dell’ordine costituzionale. Con il lockdown e il distanziamento sociale stanno creando le condizioni per sottrarci ogni forma di sovranità. Anche la libertà d’impresa ci sarà negata perché hanno in mente di operare una riconversione del sistema produttivo e un suo accentramento nelle mani di pochi grandi gruppi, ivi compresi distribuzione e commercio al dettaglio, con la sparizione di tutte le imprese, grandi e piccole, colonna portante del sistema paese. Questo cambio di paradigma era già tracciato nelle prime esternazioni dei componenti della task force nominata da Conte. Per attuarlo stanno testando metodi dispotici e di polizia con chi manifesta il proprio disagio e chiede interventi di aiuto vero al governo.
Il pericolo che ci vengano sottratti, con il nostro consenso ottenuto con la paura, i diritti fondamentali della persona, diventa un’evidenza sempre più allarmante. La stessa Carta Costituzionale viene, senza nessuna remora, continuamente scavalcata, mentre è stato del tutto esautorato il Parlamento, a dimostrazione del fatto che ormai la nostra Repubblica è stata svuotata della sua realtà istituzionale e politica facendo largo al governo di organismi internazionali che veicolano gli interessi delle lobby del potere finanziario e industriale. Si può facilmente presumere che il nostro paese sarà messo nelle mani delle multinazionali e dei grandi fondi di Investimento angloamericani, saranno loro a decidere come ricostruire il sistema produttivo secondo le linee della presunta riconversione green e l’accentramento nelle mani di pochi grandi gruppi.
Potremmo, a ragione, individuare nell’attuale momento di crisi pandemica la fase finale della globalizzazione con i suoi processi di accentramento della ricchezza in poche mani, di sottrazione dell’autonomia degli Stati e della libertà dei popoli.
Ci aspettano momenti molto difficili che metteranno a dura prova la resilienza al nuovo paradigma socioeconomico. Siamo quindi alla resa dei conti. Vedremo se siamo una umanità destinata all’asservimento o siamo capaci di stringerci a difesa della libertà e concepire quella comunione sociale (politica e spirituale) unica nostra salvezza.
Bisognerà far sì che la ricchezza privata di cui siamo in possesso vada a supporto della necessaria resilienza e sia messa in gioco per creare una rete alternativa di servizi e una struttura produttiva capace di garantire non solo l’autonomia alimentare, ma gli scambi di merci all’interno dei territori, in modo da sottrarci alle modalità di accentramento e alla dipendenza al nuovo sistema.
Si tratta di non stare al loro gioco. Se viene privatizzata la Sanità o la Scuola bisognerà creare i nostri ospedali, le nostre scuole, un nostro sistema di scambio del valore lavoro, un nostro sistema di pagamento fondato sulla fiducia. Ma perché tutto questo sia possibile. occorre ritrovare uno spirito comunitario dove ognuno abbia in mente l’interesse di tutti, dove l’intera comunità sia schierata a difesa di ogni singolo componente.
A seguito un articolo liberamente tratto da Milano Finanza
Ecco il piano shock di Colao
di Gabriele La Monica MF-DowJones 29/05/2020 02:00
Pace fiscale e piena deducibilità degli aumenti di capitale. Benefici fiscali per le aziende che centrano gli obiettivi di crescita dimensionale. Creazione di un fondo di sviluppo pubblico e modifica delle procedure fallimentari. Sono solo alcuni dei punti al vaglio della Task force guidata da Vittorio Colao candidati a essere contenuti nel documento che verrà illustrato al governo entro i primi di giugno con le linee guida per il piano di rilancio dell’economia dell’Italia con proiezione al 2022. Si tratta di riflessioni per la ripresa e per la crescita, effettuate nella consapevolezza di alcuni elementi che caratterizzano il nostro Paese. Le imprese hanno dimensioni decrescenti e in generale inadeguate a fronteggiare la competizione internazionale. Pensare di sostenerle esclusivamente con la leva fiscale, ragiona il Comitato nella bozza di documento che MF-Dow Jones e MF-Milano Finanza hanno potuto visionare, è improponibile, considerati il rapporto debito pubblico/pil e la spesa corrente della Pa. Le famiglie italiane dispongono di risorse importanti, ma anche lo Stato e le entità locali hanno ingenti risorse reali e finanziarie. È impossibile chiedere uno sforzo ulteriore al sistema bancario, già troppo esposto al rischio Italia. Ultimo, ma non meno importante fattore di debolezza del nostro sistema industriale, è il nanismo delle imprese che aumenta la rigidità finanziaria, soprattutto delle pmi, tipicamente legata alle risorse delle famiglie e delle banche. Nel nostro Paese, infine, ragionano gli esperti di Colao che rispondono direttamente al premier Giuseppe Conte, le crisi durano più a lungo, con maggiore danno per i creditori e con costi assai elevati, rispetto ai paesi con i quali ci confrontiamo. Un rischio cresciuto esponenzialmente per effetto delle conseguenze del lockdown. Sulla base di questi elementi sono state elaborate tre proposte rispettivamente per imprese e crescita; sostegno dell’economia attraverso il Fondo per lo Sviluppo e gestione delle crisi.
Imprese. Il vecchio assunto degli imprenditori italiani secondo il quale piccolo è bello è destinato a diventare parte del passato. Infatti secondo i tecnici della Task force per le imprese e gli imprenditori l’imperativo categorico del prossimo futuro è quello della crescita che dovrà passare per ricapitalizzazioni, m&a, investimento e innovazione. Gli incentivi useranno molto la leva fiscale. Entrando nel dettaglio delle misure che verranno proposte, c’è la possibilità di dedurre dalle tasse in un periodo di otto anni gli aumenti che verranno effettuati, al netto delle cedole, cui potrebbe aggiungersi una pace fiscale di tre anni. La deducibilità fiscale è l’arma che si studia per incentivare operazioni di m&a o investimenti mirati alla crescita interna e all’innovazione. Per i primi si pensa alla deducibilità degli avviamenti in 10 anni e per i secondi una deducibilità al 120%. Grossa attenzione agli investimenti che saranno effettuati in Ricerca e sviluppo che potranno avere una deducibilità al 200%. La spesa dovrà essere ovviamente documentata e verificata, magari dagli organi di controllo aziendale. La crescita delle aziendale verrà premiata, scrivono sempre i tecnici del Comitato nella bozza, soprattutto in quei settori dove la dimensione è cruciale per la competitività. E anche in questo caso con stimoli molto innovativi. Saranno utilizzati tre parametri europei: dipendenti, attivo e fatturato. Le imprese che in tre anni raggiungeranno il primo quartile di crescita delle imprese del settore verranno ricompensate con un taglio del 25% dell’aliquota fiscale per il biennio successivo.
Fondo per lo sviluppo. Il sostegno all’Economia dovrebbe passare attraverso la creazione di un Fondo per lo sviluppo che avrà una dotazione di capitale compresa fra 100 e 200 miliardi di euro. Lo Stato, le regioni, le province, i comuni conferiranno al Fondo immobili, partecipazioni in società quotate e titoli. Esattamente quanto Milano Finanza sostiene da tempo. Secondo quanto si apprende verrà poi sondata anche la possibilità di attingere a parte delle riserve auree di Bankitalia. È previsto che il fondo venga gestito da Cdp. La sue quote dovrebbero essere messe a garanzia dei crediti erogati alle imprese e dunque assegnate alle banche e vendute agli investitori internazionali o alla stessa Bce. Le somme raccolte è previsto che vengano investite da Cdp nell’industria 4.0 e nelle imprese ad alto tasso di crescita che saranno identificate fra quante avranno aderito alle proposte loro riservate. In sostanza, i denari saranno offerti alle aziende che avranno investito in ricapitalizzazione, m&a e innovazione. I tecnici non escludono inoltre che, a tendere, la quote del fondo possano essere vendute anche al retail.
Gestione delle crisi. La crisi genererà una quantità esorbitante di ricorsi alla legge fallimentare. Secondo alcune stime che circolano al tavolo della Task force le procedure nel prossimo anno potrebbero essere anche 300 mila, una cifra che farebbe entrare in crisi i tribunali. Anche in questo caso si pensa a un percorso innovativo, Per le imprese maggiori sarà proposto il congelamento dei debiti e la nomina di una terna di esperti che avranno pieni poteri e che saranno nominati dal Tribunale su indicazione dei creditori ed, eventualmente, sentendo anche l’imprenditore. Entro 30 giorni dovranno presentare un programma di prima riorganizzazione e di tamponamento dell’emorragia mentre al massimo entro sei mesi dovranno chiudere la procedura e quindi effettuare il turnaround, cessione o fusione o liquidazione dell’impresa. Il compenso sarà in larga parte legato al successo che a sua volta sarà misurato in termini di raggiungimento degli obiettivi. Tanto più gli obiettivi sono raggiunti in tempi brevi, tanto più elevato sarà il compenso degli esperti. Per le Pmi la procedura sarà la stessa procedura con un solo capo azienda, con identici tempi e modalità di remunerazione. (riproduzione riservata)
La lettera aperta che ha scritto l’arcivescovo Carlo Maria Viganò al presidente Trump è un appello accorato e potente che sgorga direttamente dal cuore della vera chiesa di Cristo.
Quella Chiesa che in tutti questi anni è stata umiliata, perseguitata e messa ai margini si rivolge direttamente al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, per porgere una preghiera e una sincera esortazione a contrastare le forze massoniche del nuovo ordine mondiale che ormai sono penetrate nei gangli vitali della società, avvelenandola e contaminandola.
Quando si leggono le parole di Viganò non si può fare a meno di pensare ad un passo delle sacre scritture, quello della lettera agli Efesini, che descrive perfettamente il momento storico che si sta vivendo.
“La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti.”
E’ questo il messaggio che il monsignore sembra voler trasmettere al presidente degli Stati Uniti.
In questo momento storico così colmo di tormenti e di disordini, si sta avvicinando un appuntamento cruciale per l’umanità.
Una sorta di redde rationem che vede da un lato, come ricorda l’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, il popolo di Dio che, seppur “con mille difetti e debolezze”, non mira a portare morte e distruzione ma piuttosto a “compiere il bene, essere onesti, costituire una famiglia, impegnarsi nel lavoro, dare prosperità alla Patria, soccorrere i bisognosi e meritare, nell’obbedienza alla Legge di Dio, il Regno dei Cieli.”
Chi vuole servire Dio vuole la prosperità della sua nazione, fondata sul suo caposaldo imprescindibile, la famiglia naturale.
Chi invece vuole servire il principe di questo mondo è animato da una sconfinata volontà di potenza fine a sè stessa che mira solamente al vacuo principio di accumulare ricchezze e potere.
Non esiste solidarietà in questo campo. Non esiste amore per il prossimo, ma esiste solo la sconfinata brama di ergersi al di sopra dei propri fratelli a costo della loro stessa distruzione.
Questi uomini, scrive Viganò “servono se stessi, non hanno principi morali, vogliono demolire la famiglia e la Nazione, sfruttare i lavoratori per arricchirsi indebitamente, fomentare le divisioni intestine e le guerre, accumulare il potere e il denaro: per costoro l’illusione fallace di un benessere temporale rivelerà – se non si ravvedono – la tremenda sorte che li aspetta, lontano da Dio, nella dannazione eterna.”
La dicotomia del popolo di Dio contro il popolo di Satana è quello che sta caratterizzando questo momento storico così tormentato, tanto da assomigliare a quanto profetizzato da Giovanni nell’Apocalisse dove si narra appunto questo scontro finale che si consumerà alla fine dei tempi.
Ma nel mondo ultimo che descrive l’apostolo è il popolo del principe delle tenebre ad essere padrone delle istituzioni terrene mentre chi vuole seguire la parola di Cristo è chiamato a dure prove.
I cristiani devono unirsi per combattere il nuovo ordine mondiale
Ed è in quest’ottica che Viganò si rivolge a Trump. Per combattere la madre di tutte le battaglie e scacciare definitivamente il male che ha contaminato il mondo occorre che il popolo di Dio sia unito.
C’è bisogno di costruire un asse tra la vera Chiesa di Cristo e quanti nelle istituzioni terrene non vogliono vedere sorgere quel nuovo ordine mondiale che in nome di una falsa fratellanza è pronto a perseguitare e distruggere le nazioni del mondo, pur di edificare un governo unico mondiale guidato da un falso messia pronto a sostituirsi a Dio.
E’ questa la battaglia che sta combattendo il presidente Trump, come si è avuto modo di ricordare precedentemente.
Una battaglia contro quei poteri dei grandi banchieri che dominano l’Europa e il mondo da 200 anni, come la famiglia Rothschild o il famigerato finanziere George Soros che bramano appunto la fine della sovranità delle nazioni e la nascita di questo Leviatano globale.
La crisi da Covid ha fatto emergere ancora più chiaramente la volontà di dominio del mondo di queste élite internazionali.
Non c’è nulla fatto nella società post-Covid che vada nella direzione di assicurare il bene della comunità.
Al contrario sta prendendo vita un inquietante tecno-totalitarismo che vuole avere il controllo totale della vita di ogni singolo cittadino.
Viganò sa perfettamente che non si può vincere questo scontro solamente con armi terrene, ma ci vuole un’armatura spirituale per poterlo fare.
Un’armatura di cui si può essere investiti solamente attraverso l’aiuto di uomini di fede che non vogliono vedere morire la vera Chiesa e permettere la nascita della religione unica mondiale che accompagnerà la nascita del governo globale.
Ecco perchè se esiste un’alleanza tra questi falsi profeti di questa religione anticristiana e il futuro governo mondiale, sarebbe fondamentale che esistesse di converso un’alleanza tra la vera religione cattolica e i governanti al servizio di Dio.
Lo spiega perfettamente lo stesso arcivescovo.
“Gli schieramenti cui ho accennato si trovano anche in ambito religioso. Vi sono Pastori fedeli che pascono il gregge di Cristo, ma anche mercenari infedeli che cercano di disperdere il gregge e dare le pecore in pasto a lupi rapaci. E non stupisce che questi mercenari siano alleati dei figli delle tenebre e odino i figli della luce: come vi è un deep state, così vi è anche una deep church che tradisce i propri doveri e rinnega i propri impegni dinanzi a Dio. Così, il Nemico invisibile, che i buoni governanti combattono nella cosa pubblica, viene combattuto dai buoni pastori nell’ambito ecclesiastico. Una battaglia spirituale della quale ho parlato anche in un mio recente Appello lanciato lo scorso 8 Maggio.”
Il fumo dell’apostasia è quindi penetrato da tempo nei luoghi che invece dovrebbero preservare e custodire la fede cristiana.
Esiste una falsa chiesa, per evocare le parole di Padre Pio che molti decenni prima aveva visto i segni della corruzione, che si è prostata ai piedi del mondo e non è interessata a rendere gloria a Dio.
Ed è questa deep church che sta di fatto legittimando un chiaro attacco rivolto al presidente Trump raffigurato come razzista da una falsa “narrazione mediatica orchestrata non per combattere il razzismo e per portare ordine sociale, ma per esasperare gli animi.”
Sono questi vescovi, scrive Viganò, che, “con le loro parole, danno prova di essere schierati sul fronte opposto. Essi sono asserviti al deep state, al mondialismo, al pensiero unico, al Nuovo Ordine Mondiale che sempre più spesso invocano in nome di una fratellanza universale che non ha nulla di cristiano, ma che evoca altresì gli ideali massonici di chi vorrebbe dominare il mondo scacciando Dio dai tribunali, dalle scuole, dalle famiglie e forse anche dalle chiese.”
L’arcivescovo prega per la nazione americana e perchè Trump possa riuscire a sconfiggere queste forze nemiche di Dio e dell’umanità intera.
Ma per farlo Trump ha certamente bisogno di un aiuto dall’alto, dal momento che questa battaglia travalica i confini terreni.
L’avvento del falso leader di questo governo mondiale sembra essere imminente e gli uomini di buona volontà, laici ed ecclesiastici, debbono unirsi per poter affrontare questo nemico che prometterà pace, ma che in realtà seminerà violenza e devastazione nel folle proposito di cancellare le nazioni e le loro inestinguibili tradizioni.
Viganò sta dicendo al presidente americano qualcosa di molto semplice. C’è bisogno di Dio per combattere questo nemico invisibile e ne hanno bisogno tutti coloro che vorranno opporsi ai servi del mondialismo.
Il popolo di Dio sta per combattere la sua ultima battaglia, ma deve farsi trovare pronto all’appuntamento.
Le menzogne e gli inganni del globalismo sono destinati a crollare inevitabilmente.
Viganò ha teso una mano a Trump e gli ha mostrato la via. Se la resistenza cristiana si fortificherà, alla fine ne uscirà vincitrice.
Qui di seguito il testo integrale della lettera di Viganò a Trump:
Signor Presidente,
stiamo assistendo in questi mesi al formarsi di due schieramenti che definirei Biblici: i figli della luce e i figli delle tenebre. I figli della luce costituiscono la parte più cospicua dell’umanità, mentre i figli delle tenebre rappresentano una minoranza assoluta; eppure i primi sono oggetto di una sorta di discriminazione che li pone in una situazione di inferiorità morale rispetto ai loro avversari, che ricoprono spesso posti strategici nello Stato, nella politica, nell’economia e anche nei media. Per un fenomeno apparentemente inspiegabile, i buoni sono ostaggio dei malvagi e di quanti prestano loro aiuto per interesse o per pavidità.
Questi due schieramenti, in quanto biblici, ripropongono la separazione netta tra la stirpe della Donna e quella del Serpente. Da una parte vi sono quanti, pur con mille difetti e debolezze, sono animati dal desiderio di compiere il bene, essere onesti, costituire una famiglia, impegnarsi nel lavoro, dare prosperità alla Patria, soccorrere i bisognosi e meritare, nell’obbedienza alla Legge di Dio, il Regno dei Cieli. Dall’altra si trovano coloro che servono se stessi, non hanno principi morali, vogliono demolire la famiglia e la Nazione, sfruttare i lavoratori per arricchirsi indebitamente, fomentare le divisioni intestine e le guerre, accumulare il potere e il denaro: per costoro l’illusione fallace di un benessere temporale rivelerà – se non si ravvedono – la tremenda sorte che li aspetta, lontano da Dio, nella dannazione eterna.
Nella società, Signor Presidente, convivono queste due realtà contrapposte, eterne nemiche come eternamente nemici sono Dio e Satana. E pare che i figli delle tenebre – che identifichiamo facilmente con quel deep state al quale Ella saggiamente si oppone e che ferocemente le muove guerra anche in questi giorni – abbiano voluto scoprire le proprie carte, per così dire, mostrando ormai i propri piani. Erano così certi di aver già tutto sotto controllo, da aver messo da parte quella circospezione che fino ad oggi aveva almeno in parte celato i loro veri intenti. Le indagini già in corso sveleranno le vere responsabilità di chi ha gestito l’emergenza Covid non solo in ambito sanitario, ma anche politico, economico e mediatico. Scopriremo probabilmente che anche in questa colossale operazione di ingegneria sociale vi sono persone che hanno deciso le sorti dell’umanità, arrogandosi il diritto di agire contro la volontà dei cittadini e dei loro rappresentanti nei governi delle Nazioni.
Scopriremo anche che i moti di questi giorni sono stati provocati da quanti, vedendo sfumare inesorabilmente il virus e diminuire l’allarme sociale della pandemia, hanno dovuto necessariamente provocare disordini perché ad essi seguisse quella repressione che, pur legittima, sarà condannata come un’ingiustificata aggressione della popolazione. La stessa cosa sta avvenendo anche in Europa, in perfetta sincronia. È di tutta evidenza che il ricorso alle proteste di piazza è strumentale agli scopi di chi vorrebbe veder eletto, alle prossime presidenziali, una persona che incarni gli scopi del deep state e che di esso sia espressione fedele e convinta. Non stupirà apprendere, tra qualche mese, che dietro gli atti vandalici e le violenze si nascondono ancora una volta coloro che, nella dissoluzione dell’ordine sociale, sperano di costruire un mondo senza libertà: Solve et Coagula, insegna l’adagio massonico.
Anche se può apparire sconcertante, gli schieramenti cui ho accennato si trovano anche in ambito religioso. Vi sono Pastori fedeli che pascono il gregge di Cristo, ma anche mercenari infedeli che cercano di disperdere il gregge e dare le pecore in pasto a lupi rapaci. E non stupisce che questi mercenari siano alleati dei figli delle tenebre e odino i figli della luce: come vi è un deep state, così vi è anche una deep church che tradisce i propri doveri e rinnega i propri impegni dinanzi a Dio. Così, il Nemico invisibile, che i buoni governanti combattono nella cosa pubblica, viene combattuto dai buoni pastori nell’ambito ecclesiastico. Una battaglia spirituale della quale ho parlato anche in un mio recente Appello lanciato lo scorso 8 Maggio.
Per la prima volta gli Stati Uniti hanno in Lei un Presidente che difende coraggiosamente il diritto alla vita, che non si vergogna di denunciare le persecuzioni dei Cristiani nel mondo, che parla di Gesù Cristo e del diritto dei cittadini alla libertà di culto. La Sua partecipazione alla Marcia per la Vita, e più recentemente la proclamazione del mese di Aprile quale National Child Abuse Prevention Month sono gesti che confermano in quale schieramento Ella voglia combattere. E mi permetto di credere che entrambi ci troviamo compagni di battaglia, pur con armi differenti.
Per questo motivo ritengo che l’attacco di cui Ella è stato oggetto dopo la visita al Santuario Nazionale San Giovanni Paolo II faccia parte della narrazione mediatica orchestrata non per combattere il razzismo e per portare ordine sociale, ma per esasperare gli animi; non per dare giustizia, ma per legittimare la violenza e il crimine; non per servire la verità, ma per favorire una fazione politica. Ed è sconcertante che vi siano Vescovi – come quelli che ho recentemente denunciato – che, con le loro parole, danno prova di essere schierati sul fronte opposto. Essi sono asserviti al deep state, al mondialismo, al pensiero unico, al Nuovo Ordine Mondiale che sempre più spesso invocano in nome di una fratellanza universale che non ha nulla di cristiano, ma che evoca altresì gli ideali massonici di chi vorrebbe dominare il mondo scacciando Dio dai tribunali, dalle scuole, dalle famiglie e forse anche dalle chiese.
Il popolo americano è maturo e ha ormai compreso quanto i media mainstream non vogliano diffondere la verità, ma tacerla e distorcerla, diffondendo la menzogna utile agli scopi dei loro padroni. È però importante che i buoni – che sono in maggioranza – si sveglino dal torpore e non accettino di esser ingannati da una minoranza di disonesti con fini inconfessabili. È necessario che i buoni, i figli della luce, si riuniscano e levino la voce. Quale modo più efficace di farlo, pregando il Signore di proteggere Lei, Signor Presidente, gli Stati Uniti e l’umanità intera da questo immane attacco del Nemico? Dinanzi alla forza della preghiera cadranno gli inganni dei figli delle tenebre, saranno svelate le loro trame, si mostrerà il loro tradimento, finirà nel nulla quel potere che spaventa fintanto che non lo si porta alla luce e si dimostra per quello che è: un inganno infernale.
Signor Presidente, la mia preghiera è costantemente rivolta all’amata Nazione americana presso la quale ho avuto il privilegio e l’onore di essere stato inviato da Papa Benedetto XVI come Nunzio Apostolico. In quest’ora drammatica e decisiva per l’intera umanità, Ella è nella mia preghiera, e con Lei anche quanti La affiancano nel governo degli Stati Uniti. Confido che il popolo americano si unisca a me e a Lei nella preghiera a Dio onnipotente.
Uniti contro il Nemico invisibile dell’intera umanità, benedico Lei e la First Lady, l’amata Nazione Americana e tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
+ Carlo Maria Viganò,
Arcivescovo Titolare di Ulpianagià Nunzio Apostolico negli Stati Uniti d’America